Papa Francesco - Conferenza Episcopale Italiana - Foto @ Servizio Fotografico - L'Osservatore Romano

Il Papa alla Cei: "Il sacerdote non è un burocrate, brucia sul rogo ambizioni di carriera e potere"

Aprendo la 69ma Assemblea generale, Francesco traccia il profilo del presbitero ed esorta a rinunciare a beni economici non necessari, ma a mantenere solo quel che serve per fede e carità

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Entra in punta di piedi, Francesco, nel mondo dei preti e parroci che “si spendono” nelle comunità italiane. Lo fa per porre ai vescovi nostrani, riuniti in Aula del Sinodo per la 69ma Assemblea della Cei, tre quesiti fondamentali: che cosa rende saporita la vita di questi sacerdoti? Per chi e per che cosa impegnano il loro servizio? Qual è la ragione ultima del loro donarsi?

Tre domande davanti a cui porsi in ascolto e in preghiera, utili ad individuare le proposte più coraggiose su cui investire circa la formazione dei sacerdoti, in linea con il tema scelto dai vescovi per l’assemblea: Il rinnovamento del clero. Quella che il Papa offre non è “una riflessione sistematica” sulla figura del prete, ma una prospettiva capovolta in cui a ‘parlare’ è lo stesso presbitero, la sua vita, le sue opere. Un prete “scalzo”, dice Francesco, rispetto ad un contesto culturale “molto diverso da quello in cui ha mosso i primi passi nel ministero”.

“Anche in Italia – osserva infatti il Papa – tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca. Noi, che spesso ci ritroviamo a deplorare questo tempo con tono amaro e accusatorio, dobbiamo avvertirne anche la durezza: nel nostro ministero, quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello”.

Su questo sfondo, la vita del presbitero diventa “eloquente”, perché “diversa, alternativa”. Perché lui “è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere”. Ha fatto “un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un ‘devoto’, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco”.

Il “nostro prete”, prosegue il Pontefice, “non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato”. “Accetta” perciò l’altro, se ne fa carico, “sentendosi partecipe e responsabile del suo destino” e rimanendo attento “a condividerne l’abbandono e la sofferenza”.

Perché il nostro prete, aggiunge il Papa, “non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro”. Per questo “non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione”; tantomeno “è consacrato a un ruolo impiegatizio, né mosso dai criteri dell’efficienza”. È un uomo consapevole “che l’Amore è tutto” e, in virtù di ciò, “non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate”.

Uno “stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile”, dunque, che “lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali”. Un “servo della vita”, rimarca il Papa, “un uomo di pace e di riconciliazione”, “un segno e uno strumento della tenerezza di Dio attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi”.

In ogni sacerdote c’è infatti un marchio a fuoco che conforma la sua esistenza a quella di Gesù Cristo. Ed è proprio questo rapporto con Lui “a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità”.

Per essere tale, tuttavia, un presbitero necessita del popolo di Dio che rimane “il grembo da cui egli è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa a cui è inviato”, sottolinea il Pontefice. Egli è pastore  “nella misura in cui si sente partecipe della Chiesa, di una comunità concreta di cui condivide il cammino”.

“Questa comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo, è il respiro che libera da un’autoreferenzialità che isola e imprigiona”, aggiunge il Papa. Il sacerdote viene “convertito e confermato dalla fede semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive”. Questa appartenenza è “il sale della vita del presbitero” che “fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno”.

In un tempo “povero di amicizia sociale”, il primo compito dei pastori è perciò di “costruire comunità”, non però “in maniera occasionale, né in forza di una collaborazione strumentale”, ma in una forma “libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali”. Questo, assicura il Papa, “fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta”.

Nella riflessione dei vescovi italiani sul rinnovamento del clero Bergoglio inserisce anche il capitolo che riguarda la gestione delle strutture e dei beni economici: “In una visione evangelica – dice – evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio”.

“Quanta tristezza fanno coloro che nella vita stanno sempre un po’ a metà, con il piede alzato! “, esclama poi il Pontefice, “calcolano, soppesano, non rischiano nulla per paura di perderci… Sono i più infelici!”. Il prete, invece, con tutti i suoi limiti, “è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l’hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. Anche quando nessuno sembra accorgersene. Anche quando intuisce che, umanamente, forse nessuno lo ringrazierà a sufficienza del suo donarsi senza misura”.

Lui però è felice perché “uomo della Pasqua”, con lo sguardo “rivolto al Regno”, ovvero “la visione che dell’uomo ha Gesù” che “è la sua gioia, l’orizzonte che gli permette di relativizzare il resto, di stemperare preoccupazioni e ansietà, di restare libero dalle illusioni e dal pessimismo; di custodire nel cuore la pace e di diffonderla con i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti”.

Ciò che chiede il Santo Padre è quindi una “triplice appartenenza”: al Signore, alla Chiesa, al Regno. “Questo tesoro in vasi di creta va custodito e promosso!” esorta, “avvertite fino in fondo questa responsabilità, fatevene carico con pazienza e disponibilità di tempo, di mani e di cuore”.

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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