«L’obiettivo è l’abbattimento dello stigma. Il “matto” viene trattato sempre più a livello giornalistico, con espressioni come “quello ha ucciso il fratello, è un matto”. Questo accade perché spesso non si conosce quello di cui si parla, o se ne ha paura. Ma Caino non era un matto! Fare del male non è essere matti, perché il male è dentro l’uomo. Associare sempre il crimine alla follia è sbagliato».
A dirlo non è uno psicologo o un avvocato, non un parente di un condannato o un santone, ma Volfango De Biasi, regista cinematografico. Oltre ad aver diretto commedie e film di Natale di successo, De Biasi ha avuto sempre una forte impronta sociale nei suoi lavori. Dopo il documentario Matti per il calcio (2006) infatti, quest’anno è volato in Giappone per riprendere il primo mondiale di calcio per pazienti psichiatrici. Riprese che diventeranno un documentario, per dare all’evento quella “visibilità” che De Biasi tanto si augura e che chiarisce nell’intervista che segue.
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Come si può combattere lo stigma di cui parla?
Il problema vero dello stigma è che se tutti ti danno addosso tu ti nascondi. Dare visibilità ad un movimento del genere, visibilità di tipo competitiva ed epica in questo caso, non solo dà la possibilità di curare, ma permette anche il coming out. La follia, che sia reversibile o irreversibile, si può sempre combattere. Il mondiale di calcio non è altro che un modo per combatterla. Cerchiamo di spingere i malati a non nascondersi dalla società, ma è altrettanto fondamentale il contrario. La società non può e non deve abbandonare ed emarginare i soggetti con disagi psichici. È arrivato il momento che “lo scemo del villaggio” venga compreso ed accolto dal villaggio. Questa è una delle nuove frontiere dell’educazione civica. La celebrità di cui gode chi fa il mio lavoro può essere utile, con progetti come questo, a rendere migliore il mondo in cui viviamo.
Come nasce questo progetto?
Il progetto, nato con il mio amico psichiatra Santo Rullo, viene da lontano. Tutto ha inizio 12 anni fa, con una pubblicità progresso sul disagio psichico. Poi nel 2006 ho girato Matti per il calcio, quando ancora non ero un regista di una qualche popolarità poiché non avevo ancora fatto Come tu mi vuoi o Iago. Nonostante questo il film ha avuto molto successo, vincendo premi e venendo distribuito nel mondo. Dal 2006 la mia vita è cambiata, ho ottenuto molto successo con i miei film e contemporaneamente ho sempre cercato di alternarmi tra il commerciale ed il sociale. Poi lo scorso anno mi arrivò un’inaspettata chiamata di Santo Rullo, in cui mi disse che il 31 dicembre sarebbero partiti per il Giappone. Stava nascendo infatti il primo mondiale di calcio per pazienti psichiatrici, grazie soprattutto a Matti per il calcio che fu visto dai giapponesi. Ovviamente non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di continuare a seguire il progetto, così mi sono mobilitato e sono partito. Fortunatamente questa volta è stato più facile ottenere i fondi, grazie all’aiuto di Tim, Rai ed Istituto Luce. Adesso il film, che è un po’ il prosieguo di Matti per il Calcio, è in fase di montaggio e probabilmente si chiamerà “The craziest world cup”. Inoltre stiamo cercando di coinvolgere FIGC, CONI, le istituzioni e il Ministero della Salute, affinché non rimanga un episodio isolato ma con Roma 2018, il secondo mondiale, diventi un vero mondiale federato.
Cosa l’ha colpita delle storie che ha filmato e raccontato?
Il fatto che, al di là di malattie come schizofrenia, depressione acuta e bipolarismo, sono semplicemente uomini. Vederli tornare alla vita, ognuno a suo modo, grazie al nostro lavoro è stata veramente una gioia. Quest’anno ad esempio abbiamo ottenuto il patrocinio della FIGC. Assistere al loro orgoglio nell’indossare la maglia azzurra è stata un’emozione unica. E l’orgoglio era anche nostro, perché io ad esempio so che non indosserò mai la maglia azzurra, non potrò mai difendere i colori del Paese in una competizione mondiale, ma allo stesso tempo ho avuto la fortuna di poter dare questa possibilità a chi ne aveva più bisogno di me. Quelle che ho trascorso in Giappone sono ore di lavoro, sogno e gioia ben destinate, destinate a chi ha di meno e si merita di più.
Quali saranno i canali di maggior diffusione del documentario?
Sicuramente proveremo a mandarlo in sala, poi vorremmo legarlo alla Gazzetta dello Sport, farlo vedere in televisione. Insomma creare il più grande evento possibile. Giocando anche sul fatto che il regista del film di Natale ha fatto un film sociale. Quando devi vendere un prodotto per scopi non tuoi ed egoistici, ma per beneficenza e solidarietà, provi a sfruttare ogni corrente e ogni piega possibile che gli eventi prendono. Abbiamo fatto questo lavoro sperando che gli effetti benefici fossero i più alti possibile e questo aiuta anche ad avere una sfacciataggine maggiore nel chiedere, perché non lo stai facendo per te ma per gli altri.
Quando si dice l’amore per la causa insomma.
Esatto, e se questo amore è vero puoi essere spudorato con tutti. Io sono fortemente convinto che fare un lavoro che comunica come il nostro sia una grande responsabilità. Non può essere solo un’occasione per fare soldi. Hai studiato, hai imparato, hai sulle spalle autori e storie, per cui anche se fai la commedia frivola sei responsabile. Sei responsabile di quello che fai, sei responsabile del modo in cui fai ridere e di ciò che con la tua arte formi e diffondi.
Ci sono progetti che sogna di fare e che ancora non ha realizzato?
Tutto ciò che ancora non ho realizzato lo voglio realizzare. Non mi pongo limiti. Io mi sento sempre come uno che sta iniziando e che ha tutto da imparare. Ogni film che faccio e ogni documentario mi dico di non saperlo fare. Solo affrontando ogni lavoro come un qualcosa che non conosco posso imparare e creare strutture narrative nuove ed originali. Ho paura, e questa paura di affrontare nuove avventure, di non essere in grado a mantenere quello che prometto, mi spinge a lavorare al meglio. La paura è la regola più importante. Spesso però queste emozioni, questo modo di lavorare, non traspare dai film che faccio, perché si pensa che fare un film comico sia semplice sia banale. Ma in realtà non è facile far ridere, non è facile sorprendere e non è facile fare film con i pochi soldi che circolano oggi nel cinema.
Tra i tanti lavori che ha fatto c’è la sceneggiatura di “Venti sigarette”, film che racconta la strage di Nāṣiriya e la storia di Aureliano Amedei, aiuto regista che si trovava lì per girare un documentario. Come si affronta un film del genere?
Paradossalmente è più facile, perché se decidi di scrivere un film così, significa che hai una voglia di denunciare e raccontare l’accaduto molto forte. Senza dimenticare l’impegno a mantenere viva la memoria del pubblico. C’è da dire poi che io ero un braccio creativo ed esecutivo, ma l’esperienza è di Aureliano Amadei, è lui che è stato in Iraq. Io ho semplicemente deciso di aiutarlo a raccontare, mi sono messo al servizio, ma la storia è la sua. Per partecipare, l’ho fatto come sempre per partecipare.
È molto bella questa definizione che dà del suo lavoro: per partecipare.
Vede ormai viviamo in una società che ci sta facendo diventare gradualmente dei meri utenti, delle mucche da spremere, con la perdita totale dell’idea di polis, cioè di partecipare politicamente alla nostra società. Partecipare significa uscire dalla logica faccio un prodotto-guadagno-consumo altri prodotti, ma significa anche orientare il gusto del prodotto che viene consumato e decidere di rendere il mondo leggermente migliore o leggermente peggiore, ognuno nella sua piccola porzione. Chiaramente se rubi, menti e non stai attento alle conseguenze delle scelte che ti vengono indotte, o se invece ti opponi, medi e valuti con attenzione, il risultato sarà diverso. Se non crediamo a questo è inutile alzarsi dal letto la mattina. La vita è brevissima, non ha certezze e in questo brevissimo spazio di tempo ci è dato di scegliere che emozioni vivere, in che direzione andare e quali titoli, quali segni, lasciare. Anche nella maniera più laica possibile, bisogna scegliere da che parte stare.
Lei dice laica, però questo suo discorso sembra molto impregnato di valori cristiani.
Io parto dal presupposto che dal punto di vista socio-culturale non possiamo non essere cristiani. Se sei prima romano, poi italiano e poi europeo allora sei inevitabilmente cristiano, che tu lo voglia o meno. Nel senso che i valori culturali assunti fin dalla nascita, dal senso del peccato al senso del trascendente, sono radicati in noi, così come lo sono nel cristianesimo. Dopo di che a questo può non conseguire un abbracciare la temporalità della chiesa, un abbracciare la liturgia o lo sposare le tematiche. Ciò non toglie che chi fa parte della nostra civiltà, per quanto possa essere libero pensatore o possa essere contaminato da altri pensieri filosofici-religiosi, comunque è cristiano. Mi fa ridire chi dichiara il contrario. Non lo sento come un merito, semplicemente lo siamo perché condividiamo questi valori. Altro discorso è invece il rapporto con il sacro e con lo spirituale, rapporto che ritengo intimo e personale. Per quanto oggi sia di moda essere fuori dottrina, così come in altri tempi è stato necessario e doveroso essere in dottrina, ognuno ha e avrà sempre, per quanto il dogma sia forte o meno, una rapporto personale con la spiritualità. Credo che sia fisiologico. Anche perché altrimenti l’alternativa sarebbe un mondo di domande senza risposte, o un mondo di risposte effettive senza domande. La fiducia in un Altro da te è un sentimento incostante che mette in movimento, che rivoluziona la vita e ti pone in costante ricerca. Per cui uno può scoprire di avere una fede in un dato momento della sua vita, o può cercarla, o può scoprire che non esiste, o può averne bisogno. C’è una meravigliosa libertà nell’essere. Credo che questo, il punto della ricerca in cui sei, non contamini chi sei e quello che fai e non autorizzi nessuno a giudicarti.
Quanta saggezza nello ‘scemo del villaggio’
Intervista a Volfango De Biasi, regista cinematografico che ha ripreso il primo mondiale di calcio per pazienti psichiatrici