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Il lavoro è vita

Come scriveva il poeta Gibran Khahlìl Gibran: “Quando lavorate compite una parte del sogno più avanzato della terra, che fu assegnata a voi quando quel sogno nacque”

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“Non c’è peggiore povertà di quella che non ci permette di guadagnarci il pane, che ci priva della dignità del lavoro”. Quanto Papa Francesco osserva non può passare sotto silenzio nel giorno in cui del lavoro si celebra la festa. Il lavoro è il verbo della grammatica sociale, ciò che lega e dà senso alle nostre relazioni.
Esso è intrinseco alla struttura dell’uomo, concorre al bene comune. Parafrasando Primo Levi, si può dire che costituisca la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. È così più chiaro il motivo per il quale inoccupazione e disoccupazione non potranno mai dare serenità, ma solo insoddisfazione ed infelicità: l’uomo, ricorda la Genesi, è stato collocato “nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (2, 15).
Il dramma del disoccupato o di chi è costretto a un lavoro alienante, perché inadatto e sottopagato, è quello di non poter realizzare se stesso. Non a caso la figura di Giuseppe trova pienezza proprio nella sua missione semplice di sostegno alla famiglia e di fedeltà al suo compito. Di lavoro non ce n’è mai abbastanza.
E per i giovani in particolare ve n’è poco, pochissimo. Questa è una verità drammatica in un Paese, come il nostro, in cui la disoccupazione fra i ragazzi di età compresa tra i 15 e i 24 anni supera il 40%, con oltre 2 milioni di giovani estranei sia al sistema scolastico sia a quello produttivo.
Lo spreco, oggi, di questi capitali umani, riduce – domani – la competitività economica, la robustezza etica e sociale; mina il legame sociale. Insomma, impoverisce tutti. Perché quando una nazione non riesce a occupare i giovani, che sono sempre la sua parte migliore e più creativa, reca a se stessa danni molto gravi: per il suo presente e per il suo futuro.
È vero: dopo anni molto duri, l’Italia e nel complesso l’Europa stanno cercando di ripartire, ma ciò non è sufficiente, perché non si avverte ancora, specialmente tra gli adulti, l’urgenza etica di far largo a figli e nipoti. Un principio che sarebbe applicazione concreta di quella fraternità civile cardine dell’umanesimo moderno, fondamentale nei momenti di crisi: non è mancata dopo terremoti e catastrofi naturali e civili, non può mancare per uscire definitivamente da una crisi che continua a preoccupare molti.
C’è poi molto da lavorare sul versante della scuola e della formazione: occorrerebbero innovazione e visione, mentre oggi il Bel paese continua ad importare logiche e strumenti di gestione da quegli universi culturali che intendono  la scuola esclusivamente all’interno di una logica di mercato.
Celebrare seriamente il primo maggio, allora, significa anelare ad un cambiamento interiore e insieme comunitario e sociale, come scriveva il poeta Gibran Khahlìl Gibran: “Quando lavorate compite una parte del sogno più avanzato della terra, che fu assegnata a voi quando quel sogno nacque. Sostenendo voi stessi col lavoro amate in verità la vita, e amare la vita nel lavoro è vivere intimamente con il più intimo segreto della vita”.

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Vincenzo Bertolone

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