Pregnant woman with fetus

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Aborto in Italia: ecco i dati reali

Nonostante i tanti obiettori di coscienza, il carico di lavoro per i ginecologi non obiettori si è dimezzato in trent’anni. A ricorrere all’aborto soprattutto donne straniere, povere ed emarginate

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Il “diritto” all’aborto in Italia è negato? Il recente pronunciamento del Consiglio d’Europa e le reazioni che ne sono seguite sembrano offrire una risposta affermativa. Ma la realtà dei fatti dimostra il contrario.
L’alto numero di medici obiettori, infatti, non ostacola affatto le interruzioni di gravidanza in Italia. Non c’è bisogno di letture ideologiche per dirlo, basta attenersi a una ricostruzione empirica della realtà.
Nel novembre scorso il Ministero della Salute ha inviato in Parlamento l’ultima relazione sulla legge 194, dalla quale emerge che nel 2014 le interruzioni volontarie di gravidanza sono state poco meno di 100mila (precisamente 97.535).
Se si raffronta questo dato al numero di bambini nati nello stesso anno (509mila), si evince che nel nostro Paese quasi una gravidanza su cinque, aborti spontanei esclusi, non termina con il parto. Un dato, questo, che da solo basterebbe per suggerire una lettura dei fatti diversa da quella interpretata dal Consiglio d’Europa.
Ma c’è un altro dato a confermare che l’accesso all’aborto in Italia è tutt’altro che una chimera. Dal 1983 al 2003 le interruzioni di gravidanza sono passate da 234 mila a 102mila circa, diventando meno della metà. Contestualmente, il numero di ginecologi obiettori è rimasto quasi invariato (un centinaio in meno). Ne deriva che il lavoro per i medici che praticano l’aborto si è dimezzato rispetto a trent’anni fa.
La media nazionale parla di 1,6 interruzioni di gravidanza a settimana praticate da ogni ginecologo non obiettore nel 2013, contro i 3,3 del 1983, anno nel quale nessuno si sarebbe sognato di accusare l’obiezione di coscienza di intralciare questo “diritto”. Oggi, a fronte di una crisi demografica senza eguali dall’Unità d’Italia, si contano 5 strutture ospedaliere in cui si può abortire ogni 7 in cui si può invece partorire. Ciò significa che, se gli aborti sono il 20% delle nascite, i punti Ivg (luoghi dove si praticano aborti) sono il 74% degli ospedali con sale parto.
Punti Ivg che – detto per inciso – sono frequentati sempre meno da donne italiane e sempre più da donne straniere. Dei quasi 100mila aborti del 2014, circa 30mila sono stati praticati su donne originarie di altri Paesi. I cittadini stranieri, che sono l’8% della popolazione italiana, sono dunque coinvolti dall’aborto nel 30% dei casi.
Una sproporzione che testimonia come le ricorrenti all’interruzione volontaria di gravidanza siano spesso donne povere ed emarginate. Un motivo valido per puntare l’indice non verso quel 70% di medici obiettori, i quali esercitano un diritto costituzionale previsto dalla stessa legge 194, bensì verso una evidente scarsa propensione all’accoglienza nei confronti dei più bisognosi.
Le donne che decidono di sopprimere la vita che portano in grembo sono le prime vittime di una “cultura dello scarto” che è il vero problema da affrontare. Anziché reclamare che venga garantita la legge 194 sulla base del sensazionalismo o di dati anodini, un serio impegno sociale sarebbe auspicare che nessuna donna sia più costretta a eliminare il bambino che cresce nelle sue viscere.
D’altronde come affermano l’Associazione Medici Cattolici Italiani e la Federazione Europea delle Associazioni Mediche Cattoliche – le quali hanno reagito con “sconcerto” al pronunciamento del Consiglio d’Europa – “non c’è futuro per l’Europa se non in una scelta di superamento della logica abortiva nella prospettiva di accoglienza della vita umana, sostenuta spesso più a parole che nei fatti”.

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Federico Cenci

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