Storia di Claudia, la moglie di Ponzio Pilato

Dopo oltre cinquant’anni ripubblicato il romanzo “La moglie del procuratore” di Elena Bono.

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Per la letteratura cristiana il Novecento non è stato in generale un secolo eccezionale, non sono molti i grandi delle belle lettere vi si sono cimentati e ancora meno lo hanno fatto lasciando in eredità pagine d’autore.
Fa eccezione però senz’altro la poetessa, romanziera e drammaturga Elena Bono che da scrittrice versatile, oltre che straordinariamente colta nella formazione, si è misurata ripetutamente con la storia della salvezza e i personaggi del Vangelo riprendendone originalmente per la produzione letteraria spunti e motivi.
“La moglie del procuratore”, romanzo breve incentrato sulla moglie di Ponzio Pilato (Claudia Serena Procula) che uscì la prima volta nel 1956 all’interno della raccolta di prosa Morte di Adamo, era da tempo introvabile in commercio: l’operazione editoriale della casa editrice Marietti che finalmente la ripropone a parte nel catalogo al grande pubblico con una prefazione apposita del giornalista Armando Torno e una postfazione della studiosa Stefania Segatori merita quindi una segnalazione tutta particolare (cfr. E BONO, La moglie del procuratore, Marietti, Genova 2015, Pp. 206, Euro 12,00).
Scritto come un giallo e ambientato nella casa del filosofo Lucio Anneo Seneca in una Roma misteriosa avvolta dalla neve, il racconto prende spunto da quella figura altrettanto misteriosa – nei Vangeli, come per gli storici di Roma – che è appunto Claudia Serena Procula.
Misteriosa perché nel dramma sconvolgente della Passione la sua voce (“Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”, Mt 27,19) resta – di fronte al marito che scetticamente chiede al Signore che cosa sia la verità (cfr. Gv 18,38) – una voce di incredibile prudenza ed equilibrio al punto che la Bono sembra chiedersi – e chiedere al lettore, fra le righe – che cosa sarebbe mai successo se ci fosse stata lei a decidere nel processo, invece di Ponzio Pilato.
Basta solo questo alla scrittrice per realizzare una storia di coinvolgente attrazione che parte fotografando l’ultima fase di decadenza morale delle elìtes della Roma pagana per arrivare appunto a ri-vivere che cosa accadde veramente quel giorno a Gerusalemme.
Testimone e spettatore d’eccezione quel Seneca che pure, per certi tratti, fu uno dei filosofi romani più prossimi all’etica evangelica.
E’ lui che accoglie Claudia nella sua dimora in una sera d’inverno per ascoltarne attentamente quella che – più che una deposizione dettagliata dei fatti – apparirà alla fine quasi come il testamento ‘spirituale’ della vedova dell’alto magistrato romano.
Pilato, infatti, non c’è più e la sua morte tragica, seguita a un periodo di pazzia, è stata l’inevitabile conseguenza di quel verdetto strappatogli dalla folla urlante per liberare il criminale Barabba. Da quel giorno, racconta la vedova, letteralmente nulla è stato come prima e il rimorso di non poter più tornare indietro ha diviso lentamente, ma inesorabilmente,
Pilato da lei e quindi loro due – separatamente – dal mondo e dalla vita di sempre perché l’incontro con il Signore – in qualunque modo avvenga – stravolge tutta l’esistenza, in modo assolutamente radicale.
Se c’è un aggettivo che potrebbe descrivere più di altri lo stato d’animo di Claudia nel racconto – prima della riconciliazione finale – forse è proprio ‘ossessionata’: la donna torna continuamente sulla successione degli eventi di quel Venerdì che divise in due la storia ri-sentendone voci, urla, suoni e odori, come se lei dopo tanti anni da quella vicenda fosse sempre e ancora lì, tremante e impotente di fronte al dramma spaventoso del peccato dell’umanità che si consuma.
E come lei, anche il centurione che trafisse il costato del Signore – convertendosi – le sue serve di casa, e chiunque abbia attraversato, anche solo per un momento, la scena del processo più meditato e studiato di tutti i tempi. Il motivo dell’angoscia incancellabile di Claudia – la stessa che ha portato alla morte Pilato – viene infine dichiarato all’improvviso, di getto, come quando ci si deve liberare di un peso che ci opprime e non si riesce più a sopportare: “non era un ribelle – mormorò – era perfettamente innocente” (pag. 102).
Di fronte a tutto ciò Seneca rimarrà in attento ascolto, ma, suggerisce la scrittrice, non farà l’ultimo passo – quello della conversione – distaccandosi quindi dal cammino spirituale di Claudia che riconoscerà invece alla fine in Gesù il Dio da sempre atteso, ottenendone in cambio la tanto agognata pace del cuore, il bene più grande, e prezioso, che si può avere su questa terra.
Come i veri grandi classici, un’opera che non ha perso nulla della freschezza originale rispetto alla prima uscita e continua ad affascinare il lettore anche una volta chiusa l’ultima pagina. Un capolavoro letterario e una meditazione poderosa di una grande artista interrogata – e conquistata – dalla forza liberante del Vangelo.

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Omar Ebrahime

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