Il “prendersi cura” dei malati di Alzheimer

Nella ricerca Censis – AIMA

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A fine febbraio, nel trentennale di attività dell’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA), è stata presentata una ricerca realizzata in collaborazione con il Censis (ed il contributo della multinazionale farmaceutica Lilly), sulle condizioni dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie, privilegiando il punto di vista dei “caregiver”. Il termine, di origine anglosassone ed entrato nella letteratura corrente, si traduce in “colui che si prende cura”  riferendosi ad un familiare che assiste una persona ammalata e/o disabile. Rappresenta, di fatto, il soggetto impegnato nel fornire anche il sostegno emotivo al proprio caro [1].
L’Alzheimer interessa (dati 2015) il 34,1% di uomini ed il 65,9% di donne, con una età media di 78,8 anni mentre quella dei caregiver è di 59,2. Inoltre, sempre tra i caregiver, sono il 10% i disoccupati e, più in generale, vi è una quota elevata di persone in età lavorativa ma in condizione non professionale (40%).
I caregiver prevalenti sono i figli, arrivando al 37% i partner nel caso in cui il malato è di genere maschile, spiegando così anche il fatto che quote sempre maggiori di malati di Alzheimer vivono in casa propria (34,3% con il coniuge o 17,7% con la badante).
Il caregiver dedica al malato mediamente 4,4 ore di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza ed un supporto è dato soprattutto dai familiari (48,6%) e poi da personale pagato (32,8%, ovvero badante) mentre il 15,8% dichiara di non ricevere alcun aiuto.
L’aiuto di una badante consente, naturalmente, un aumento del tempo libero a disposizione del caregiver, facendola diventare una figura chiave nell’assistenza ai malati di Alzheimer. L’età media di una badante è di 48 anni, nel 95,7% di genere femminile, di cui un terzo italiane. Al supporto della badante si fa ricorso utilizzando il denaro del malato (nel 58,1% dei casi) anche se, negli ultimi anni cresce il contributo di denaro dei figli / partner oppure il ricorso alle indennità di accompagnamento.
Tutto questo ha uno stretto legame con gli effetti che si producono sulla vita lavorativa del caregiver. Il 59,1% di coloro attualmente occupati segnala cambiamenti nella vita lavorativa come un aumento delle assenze, soprattutto per gli uomini, mentre le donne evidenziano di aver richiesto più frequentemente il part-time. Per i caregiver non occupati, invece, il 18,7% mostra importanti cambiamenti, sino alla perdita del posto di lavoro.
Oltre a quelle sul lavoro, l’impegno del caregiver ha conseguenze anche sullo stato di salute, questo in particolare per le donne, dove l’80,3% manifesta di accusare stanchezza, di soffrire di depressione (45,3%), di ammalarsi spesso (26,1%).
Non trascurabili risultano anche gli effetti prodotti sulla vita relazionale del caregiver, con l’interruzione di attività extra-lavorative, dell’impatto negativo sui membri della famiglia e sulle amicizie.  Ma… l’assistenza ad un malato di Alzheimer permette anche di  riflettere sulle priorità della vita. Infatti, il 79,5% pensa di averle riconsiderate grazie alla malattia e di aver capito cosa sia veramente importante.
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NOTE
[1] L’indagine ha coinvolto un campione di 425 caregiver di malati di Alzheimer non istituzionalizzati e la selezione degli intervistati è stata condotta su un campione a quote definito a partire dalla distribuzione nazionale dei pazienti affetti da questa patologia. E’ il terzo studio, che segue quelli del 1999 e del 2007.

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Antonio D'Angiò

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