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Caso Varani: educare alla bellezza per sfuggire alla cultura della morte

Il recente omicidio del giovane 24enne romano spinge a riflettere e a intervenire con urgenza per dare senso alla vita anche nei momenti oscuri

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La nostra società “liquida”, come la definisce il sociologo Zygmunt Bauman, non manca di mietere vittime, come accaduto nel recente omicidio di Luca Varani. Un dramma che definire “spietato” suona come un eufemismo. L’assoluto relativismo che sta caratterizzando l’attuale mondo occidentale ha fame di punti di riferimento, nell’assenza dei quali si ricorre alla ricerca di emozioni forti e di sfide mortali, come sostiene lo psichiatra Tonino Cantelmi in una breve intervista rilasciata ieri al Sir. E dunque siamo costretti a leggere di  eventi terribili e sconcertanti, ai quali però non possiamo semplicemente assistere come spettatori passivi, senza poi riflettere e agire di conseguenza con determinazione.
Il caso Varani non è isolato. Sembrava ormai una moda fino a qualche mese fa cadere dal balcone durante una gita scolastica; ha successo mediatico, specialmente sui social, la pratica dello knockout game, laddove si stende a pugni senza motivo la prima persona che si incontra per la strada; e poi le prove di coraggio di sempre, contraddistinte ultimamente da un’esasperazione micidiale che non teme il rischio della perdita della vita. Proprio il non senso e il disprezzo della vita porta a non dare valore alla morte, ad essere indifferenti anche verso se stessi, a non riconoscere il limite tra umano e disumano.
La fragilità delle agenzie educative, dalla famiglia alla scuola, dalla Chiesa ai media, è la causa principale di questa deriva. È noto ad esempio come la spettacolarizzazione della violenza possa generare emulazione, specie tra i giovani. Nel 1987 in Pensylvania si suicidava con uno sparo in bocca il politico statunitense Budd Dwyer, accusato di corruzione. In Italia quel suicidio, il primo eclatante suicidio in diretta, non andò in onda, per il rispetto della sensibilità dei telespettatori. A distanza di neanche 30 anni, oggi si vede di tutto, a qualsiasi ora, alla portata di tutti: dalle feroci esecuzioni di massa dell’Isis alla donna che in Russia esibisce la testa di una bimba decapitata in nome di Allah. Anche le fiction non si risparmiano su macabri particolari che un tempo non era necessario ostentare per la riuscita di una pellicola.
Il cristiano non può omologarsi a questa prassi ormai ordinaria. Il libro del profeta Isaia ci ricorda che «avrà l’acqua assicurata» e «abiterà in alto» colui che «si tura gli orecchi per non udire fatti di sangue, chiude gli occhi per non vedere il male» (Is 33,15-16). Non è questione di vigliaccheria ma di prudenza e di testimonianza di quella bellezza della vita che dà significato anche alla morte. Non perché al mondo si possa vedere tutto, allora tutto è lecito e buono. E se è possibile che le tenebre non accolgano la luce, come sostiene il Vangelo di Giovanni nel prologo, occorre una indispensabile opera di educazione a volgere lo sguardo verso il bello, nella preghiera, nella contemplazione dell’arte e della natura, perché la vita risplenda di senso anche quando si affacciano le ombre della crisi e della fatica.

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Francesco Indelicato

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