“Il mezzo è il messaggio” diceva McLuhan. Un principio valido anche per la Parola di Dio, spiega padre Raniero Cantalamessa nella sua terza predica di Quaresima, in cui prosegue le riflessioni sulla costituzione conciliare Dei Verbum.
Dopo aver spiegato come “accogliere”, “meditare” e “mettere in pratica la Parola”, il predicatore della Casa Pontificia parla di una quarta azione: “annunciare la Parola”. Come? La risposta si trae dalle basi della moderna scienza delle comunicazioni sociali. “Se io voglio diffondere una notizia, il primo problema che mi si pone è: con quale mezzo trasmetterla: via stampa? via radio? via televisione?”, osserva Cantalamessa.
Il mezzo è quindi fondamentale, e “qual è il mezzo primordiale e naturale con cui si trasmette la parola?”. “È il fiato, il soffio, la voce. Esso prende, per così dire, la parola che si è formata nel segreto della mia mente e la porta all’orecchio dell’ascoltatore. Tutti gli altri mezzi non fanno che potenziare e amplificare questo mezzo primordiale del fiato o della voce”.
Anche la Parola di Dio “si trasmette per mezzo di un soffio”, che la Bibbia chiama “Spirito Santo”. “Può il mio fiato animare la parola di un altro, o il fiato di un altro animare la mia parola?”, domanda padre Raniero, “no, la mia parola non può essere pronunciata che con il mio fiato e la parola di un altro con il suo fiato. Così, in modo analogo s’intende, la Parola di Dio non può essere animata che dal soffio di Dio che è lo Spirito Santo”.
“Una verità semplicissima e quasi ovvia”, questa, eppure “di immensa portata”. “È la legge fondamentale di ogni annuncio e di ogni evangelizzazione”, afferma Cantalamessa. “Le notizie umane si trasmettono o a viva voce, o via radio, stampa, internet e via dicendo; la notizia divina, in quanto divina, si trasmette via Spirito Santo”. Dunque lo Spirito Santo è il “vero” ed “essenziale” mezzo di comunicazione, senza del quale “non si percepisce, del messaggio, che il rivestimento umano”.
La storia della salvezza lo dimostra chiaramente: “Gesù cominciò a predicare ‘con la potenza dello Spirito Santo’” e l’ultima parola che rivolse agli apostoli è l’invito ad andare in tutto il mondo, “ma non prima di aver ricevuto lo Spirito Santo”. Lo Spirito ricevuto dai discepoli nella Pentecoste “si trasforma in essi in un irresistibile impulso a evangelizzare”. E San Paolo “arriva ad affermare che senza lo Spirito Santo è impossibile proclamare che ‘Gesù è il Signore!’”.
Pertanto, “la prima cosa da evitare quando si parla di evangelizzazione è quella di pensare che essa sia sinonimo di predicazione e quindi riservata a una categoria particolare di cristiani”, spiega padre Raniero. Nel senso che “non si evangelizza soltanto con le parole, ma prima ancora con le opere e la vita; non con quello che si dice, ma con quello che si fa e che si è”.
“Deeds speak louder than words”, recita infatti un vecchio detto inglese. Ovvero: “I fatti parlano più forte delle parole”. Una frase che lo stesso Paolo VI ha parafrasato nella Evangelii nuntiandi, in cui scrive: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.
Un bell’esempio di questa “efficacia della testimonianza”, il predicatore della Casa Pontificia lo ripesca nell’ordine religioso dei Cappuccini a cui appartiene. Il contributo dato all’evangelizzazione nei 5 secoli della loro storia – dice – “non è stato quello dei predicatori di professione, ma quello della schiera di ‘fratelli laici’: semplici e incolti portinai dei conventi o questuanti”.
“Intere popolazioni hanno ritrovato o mantenuto la loro fede grazie al contatto con essi”: basti pensare al Beato Nicola da Gesturi, che parlava così poco che la gente lo chiamava ‘Frate silenzio’: “eppure in Sardegna, a 58 anni dalla sua morte, l’ordine dei Cappuccini si identifica con lui”. E così anche a Roma con san Felice da Cantalice e tanti altri frati che hanno palesato la parola di Francesco d’Assisi ai predicatori: “Perché vi gloriate della conversione degli uomini? Sappiate che a convertirli sono stati i miei frati semplici con le loro preghiere”.
“Una volta – ricorda ancora Cantalamessa – durante un dialogo ecumenico, un fratello pentecostale mi chiese – non per polemica, ma per cercare di capire – perché noi cattolici chiamiamo Maria ‘Stella dell’evangelizzazione’”. “Maria è la stella dell’evangelizzazione perché non ha portato una parola particolare a un popolo particolare, come hanno fatto anche i massimi evangelizzatori della storia; ha portato la Parola fatta carne e l’ha portata (anche fisicamente) al mondo intero! Non ha mai predicato, non ha pronunziato che pochissime parole, ma era piena di Gesú e dovunque andava ne spandeva il profumo…”.
Ma, alla luce di tutto questo, come possono diventare evangelizzatori “quelli che passano la maggioranza del loro tempo dietro una scrivania e a trattare affari apparentemente estranei all’evangelizzazione”? La risposta è abbastanza semplice: “Se concepisce il proprio lavoro come servizio al Papa e alla Chiesa – spiega padre Raniero – se rinnova ogni tanto questa intenzione e non permette che la preoccupazione della carriera prenda il sopravvento nel suo cuore, il modesto impiegato di una Congregazione contribuisce all’evangelizzazione più di un predicatore di professione, se questi cerca di piacere agli uomini più che a Dio”.
Dunque “l’impegno per l’evangelizzazione è di tutti”. Tuttavia ci sono alcune “premesse” e “condizioni”. Anzitutto “uscire”: non dalla Chiesa, dalle comunità, dalle istituzioni o dalle sacrestie, bensì dal “nostro io”. Bisogna, cioè, “decentraci da noi stessi e ricentrarci su Cristo”, come affermava Teilhard de Chardin. È questo infatti – sottolinea il religioso – “l’unico modo per vincere il pullulare di invidie, gelosie, paure di perdere la faccia, rancori, risentimenti, situazioni di antipatia che riempiono il cuore dell’uomo vecchio; per essere ‘abitati’ dal Vangelo e diffondere odore di Vangelo”.
Inoltre, aggiunge Cantalamessa, “c’è una differenza enorme tra la parola di Dio semplicemente studiata e proclamata e la parola di Dio prima ‘mangiata’ e assimilata. Nel primo caso si dice di un predicatore che ‘parla come un libro stampato’; ma non si arriva così al cuore della gente, perché al cuore arriva solo ciò che parte dal cuore”. Non è “il lavoro di un giorno”; c’è però una cosa che si può fare in un giorno, oggi stesso: “acconsentire a questa prospettiva, prendere la decisione irrevocabile, per quanto sta in noi, di non vivere più per noi stessi, ma per il Signore”.
Tutto questo, “non può essere solo frutto dello sforzo ascetico dell’uomo; è anch’esso opera della grazia, frutto dello Spirito Santo”, rimarca il predicatore. E conclude mettendo in guarda da due pericoli a cui è esposto lo sforzo per una rinnovato impegno missionario. Uno – dice – “è l’inerzia, la pigrizia, il non fare nulla e lasciare che facciano tutto gli altri”. L’altro è “il lanciarsi in un attivismo umano febbrile e vuoto, con il risultato di perdere a poco a poco il contatto con la sorgente della parola e della sua efficacia. Sarebbe anche questo un votarsi al fallimento”.
Perciò “più aumenta il volume dell’attività, più deve aumentare il volume della preghiera”, spiega il cappuccino. Può sembrare assurdo, ma immaginate una squadra di pompieri che “ha ricevuto un allarme e si precipita a sirene spiegate sul luogo dell’incendio; ma, arrivata sul posto, si accorge di non avere nei serbatoi neppure una goccia d’acqua”. “Così siamo noi, quando corriamo a predicare senza pregare”, afferma Cantalamessa. “Non è che venga a mancare la parola; al contrario, meno si prega più si parla, ma sono parole vuote, che non arrivano al di nessuno”. Non solo: “Dopo aver pregato, si fanno le stesse cose in meno di metà del tempo”.
L’augurio del predicatore della Casa Pontificia è, dunque, “che lo Spirito Santo, ‘principale agente dell’evangelizzazione’, ci conceda di dare a Gesù questa gioia, con le parole o con le opere, secondo il carisma e l’ufficio che ognuno di noi ha nella Chiesa”.
CTV
Cantalamessa: "Quando si evangelizza i fatti parlano più forte delle parole”
Nella terza predica di Quaresima, il cappuccino spiega che per evangelizzare bisogna uscire dal proprio “io” e pregare. Perché “meno si prega più si parla, ma sono parole vuote”