Father Raniero Cantalamessa during the World Day of Prayer for the care of creation

CTV

Seconda predica di Quaresima di padre Cantalamessa (Testo integrale)

“Accogliete la Parola seminata in voi”. Una riflessione sulla costituzione dogmatica “Dei Verbum”

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Continuiamo la nostra riflessione sui principali documenti del Vaticano II. Delle quattro “costituzioni” da esso approvate, quella sulla Parola di Dio, la Dei verbum, è l’unica, insieme con quella sulla Chiesa, la Lumen gentium, ad avere la qualifica di “dommatica”. Ciò si spiega con il fatto che con questo testo il Concilio intendeva riaffermare il dogma della ispirazione divina della Scrittura e precisare, nello stesso tempo, il suo rapporto con la tradizione. Fedele all’intento mettere in luce i risvolti più strettamente spirituali ed edificanti dei testi conciliari, mi limiterò, anche qui, ad alcune riflessioni rivolte alla pratica e alla meditazione personale.

  1. Un Dio che parla

Il Dio biblico è un Dio che parla. “Parla il Signore, Dio degli dei… non sta in silenzio”, dice il salmo (Sal 50, 1-3). Dio stesso ripete infinite volte nella Bibbia: “Ascolta, popolo mio, voglio parlare” (Sal 50, 7). In ciò, la Bibbia vede la differenza più chiara con gli idoli che “hanno bocca, ma non parlano” (Sal 115, 5). Dio si è servito della parola per comunicare con le creature umane.
Ma che significato dobbiamo dare a espressioni così antropomorfiche come: “Dio disse ad Adamo”, “così parla il Signore”, “dice il Signore”, “oracolo del Signore”, e altre simili? Si tratta evidentemente di un parlare diverso dall’umano, un parlare agli orecchi del cuore. Dio parla come scrive! “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore”, dice nel profeta Geremia (Ger 31, 33).
Dio non ha bocca e fiato umani: la sua bocca è il profeta, il suo fiato lo Spirito Santo. “Tu sarai la mia bocca” dice egli stesso ai suoi profeti, o anche “porrò la mia parola sulle tue labbra”. È il senso della celebre frase: “Mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio” (2 Pt 1, 21). L’espressione “locuzioni interiori”, con cui si esprime il parlare diretto di Dio a certe anime mistiche, si applica, in un senso qualitativamente diverso e superiore, anche al parlare di  Dio nella Bibbia. Non si può escludere tuttavia che in certi casi, come nel battesimo e nella trasfigurazione di Gesù, si sia trattato di una voce risuonata miracolosamente anche all’esterno.
In ogni caso, si tratta di un parlare in senso vero; la creatura riceve un messaggio che può tradurre in parole umane. Così vivido e reale è il parlare di Dio che il profeta ricorda con precisione il luogo e il tempo in cui una certa parola “venne” su di lui: “Nell’anno in cui morì il re Ozia” (Is 6, 1), “Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del canale Chebàr” (Ez 1, 1), “L’anno secondo del re Dario, il primo giorno del sesto mese” (Ag 1, 1). Così concreta è la parola di Dio che di essa si dice che “cade” su Israele, come fosse una pietra: “Una parola mandò il Signore contro Giacobbe, essa cadde su Israele” (Is 9, 7). Altre volte la stessa concretezza e materialità è espressa con il simbolo non della pietra che colpisce, ma del pane che si mangia con gusto: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15, 16; cf anche Ez 3, 1-3).
Nessuna voce umana raggiunge l’uomo alla profondità in cui lo raggiunge la parola di Dio. Essa “penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4, 12). A volte il parlare di Dio è “un tuono potente che schianta i cedri del Libano” (Sal 29, 5), altre volte somiglia al “mormorio di un vento leggero” (1 Re 19, 12). Conosce tutte le tonalità del parlare umano.
Il discorso sulla natura del parlare di Dio cambia radicalmente nel momento in cui si legge nella Scrittura la frase: “La parola si è fatta carne” (Gv 1, 14). Con la venuta di Cristo, Dio parla anche con voce umana, udibile con gli orecchi anche del corpo. “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […] noi lo annunciamo anche a voi” (1 Gv 1, 1).
Il Verbo è stato veduto e udito! E tuttavia quello che si ode non è parola di uomo, ma parola di Dio perché chi parla non è la natura ma la persona, e la persona di Cristo è la stessa persona divina del Figlio di Dio. In lui Dio non ci parla più per interposta persona, “per mezzo dei profeti”, ma di persona, perché Cristo è “l’irradiazione della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza” (cf Eb 1, 2). Al discorso indiretto, in terza persona, si sostituisce il discorso diretto, in prima persona. Non più “Così dice il Signore!”, o “Oracolo del Signore!”, ma “Io vi dico!”.
Il parlare di  Dio, sia quello mediato dai profeti dell’Antico Testamento, sia quello nuovo e diretto di Cristo, dopo essere stato trasmesso oralmente, è stato alla fine messo per iscritto, e abbiamo così le divine “Scritture”.
Sant’Agostino  definisce il sacramento “una parola che si vede” (verbum visibile)[1]; noi possiamo definire la parola “un sacramento che si ode”. In ogni sacramento si distingue un segno visibile e la realtà invisibile che è la grazia. La parola che leggiamo nella Bibbia, in se stessa, non è che un segno materiale, come l’acqua nel Battesimo e il pane nell’Eucaristia, una parola del vocabolario umano non diversa dalle altre. Intervenendo però la fede e l’illuminazione dello Spirito Santo, attraverso tale segno, noi entriamo misteriosamente in contatto con la vivente verità e volontà di Dio e ascoltiamo la voce stessa di Cristo.
“Il corpo di Cristo – scrive Bossuet – non è più realmente presente nel sacramento adorabile, di quanto la verità di Cristo lo sia nella predicazione evangelica. Nel mistero dell’Eucaristia le specie che vedete sono dei segni, ma ciò che in esse è racchiuso è lo stesso corpo di Cristo; nella Scrittura, le parole che ascoltate sono dei segni, ma il pensiero che vi recano è la verità stessa del Figlio di Dio”[2].
La sacramentalità della parola di Dio si rivela nel fatto che a volte essa opera manifestamente al di là della comprensione della persona che può essere limitata e imperfetta; opera quasi per se stessa, ex opere operato, come si dice, appunto, dei sacramenti. Nella Chiesa vi sono stati e vi saranno libri più edificanti di alcuni libri della Bibbia (basti pensare a L’Imitazione di Cristo); eppure nessuno di essi opera come opera il più modesto dei libri ispirati.
Ho sentito una persona rendere questa testimonianza in un programma televisivo al quale prendevo parte anch’io. Era un alcolizzato all’ultimo stadio; non resisteva più di due ore senza bere; la famiglia era sull’orlo della disperazione. Lo invitarono con la moglie a un incontro sulla parola di Dio. Lì qualcuno lesse un brano della Scrittura. Una frase lo attraversò come una fiammata di fuoco e gli diede la certezza di essere guarito. In seguito ogni volta che era tentato di bere, correva a riaprire la Bibbia in quel punto e solo al rileggere le parole sentiva la forza ritornare in lui, finché ora era del tutto guarito. Quando volle dire quale era quella famosa frase, la voce gli si ruppe dalla commozione. Era la parola del Cantico dei Cantici: “Le tue tenerezze sono più dolci del vino” (Ct 1, 2). Gli studiosi avrebbero arricciato il naso di fronte a questa applicazione, ma quell’uomo poteva dire: “Io ero morto e ora sono tornato in vita”, come il cieco nato diceva ai suoi critici: “Io ero cieco e ora ci vedo” (cf. Gv 9, 10 ss.).
Un fatto simile accadde anche a sant’Agostino. Al culmine della sua lotta per la castità, sentì una voce che ripeteva: “Tolle, lege!”, prendi e leggi. Avendo con sé le lettere di san Paolo, aprì il libro  deciso a prendere come volontà di  Dio il primo testo su cui fosse caduto. Era Romani 13, 13 s: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie…”. “Non volli leggere oltre, scrive nelle Confessioni, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono”[3].

  1. La lectio divina

Dopo queste osservazioni sulla parola di  Dio in genere, vorrei concentrarmi sulla parola di Dio come cammino di santificazione personale. “Nella parola di Dio – dice la Dei Verbum – è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale”[4].
A partire dal certosino Guigo II[5], diversi metodi e schemi furono proposti per la lectio divina. Essi però hanno lo svantaggio di essere pensati quasi sempre in funzione della vita monastica e contemplativa, e perciò poco adatti al nostro tempo, in cui la lettura personale della parola di  Dio  è raccomandata a tutti i credenti, religiosi e laici.
Per nostra fortuna, la Scrittura ci propone, essa stessa, un metodo di lettura della Bibbia accessibile a tutti. Nella Lettera di san Giacomo (Gc 1, 18-25) leggiamo un famoso testo sulla parola di Dio. Da esso ricaviamo uno schema di lectio divina fatto di tre tappe o operazioni successive: accogliere la parola, meditare la parola, mettere in pratica la parola. Riflettiamo su ognuna di esse.

  1. Accogliere la Parola

La prima tappa è l’ascolto della Parola: “Accogliete con docilità, dice l’apostolo, la Parola che è stata seminata in voi”. Questa prima tappa abbraccia tutte le forme e i modi con cui il cristiano viene in contatto con la parola di Dio: ascolto della Parola nella liturgia, scuole bibliche, sussidi scritti e – insostituibile – la lettura personale della Bibbia.
“Il Santo Sinodo – si legge nella Dei Verbum – esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. […] Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi”[6].
In questa fase bisogna guardarsi da due pericoli. Il primo è quello di fermarsi al primo stadio e di trasformare la lettura personale della parola di Dio in una lettura impersonale. Questo pericolo è molto forte, soprattutto nei luoghi di formazione accademica. Se uno aspetta a lasciarsi interpellare personalmente dalla Parola – osserva Kierkegaard – finché non ha risolto tutti i problemi connessi con il testo, le varianti e le divergenze di opinione degli studiosi, non concluderà mai nulla. La parola di Dio è stata data perché tu la metta in pratica e non perché tu ti eserciti nell’esegesi delle sue oscurità[7]. Non sono i punti oscuri della Bibbia, diceva lo stesso filosofo, che mi fanno paura; sono i suoi punti chiari!
San Giacomo paragona la lettura della parola di Dio a un guardarsi nello specchio; ma  chi si limita a studiare le fonti, le varianti, i generi letterari della Bibbia, senza fare altro, somiglia a uno che passa tutto il tempo a guardare lo specchio – esaminandone la forma, il materiale, lo stile, l’epoca –, senza mai guardarsi nello specchio. Per lui lo specchio non assolve la propria funzione. Lo studio critico della parola di Dio è indispensabile e non si è mai abbastanza grati a coloro che spendono la vita per spianare la strada a una sempre migliore comprensione del testo sacro, ma esso non esaurisce da solo il senso delle Scritture; è necessario, ma non sufficiente.
L’altro pericolo è il fondamentalismo: il prendere tutto quello che si legge nella Bibbia alla lettera, senza alcuna mediazione ermeneutica. Solo apparentemente i due eccessi, dell’ipercriticismo e del fondamentalismo, sono opposti: essi hanno in comune il fatto di fermarsi alla lettera, trascurando lo Spirito.
Con la parabola del seme e del seminatore (Lc 8, 5-15), Gesú ci offre un aiuto per scoprire a che punto siamo, ognuno di noi, in fatto di accoglienza della parola di Dio. Egli distingue quattro tipi di terreno: la strada, il terreno pietroso, i rovi e il terreno buono. Spiega quindi cosa simboleggiano i diversi terreni: la strada quelli sui quali le parole di  Dio non fanno in tempo neppure a posarsi; il terreno pietroso, i superficiali e gli incostanti che ascoltano magari con gioia, ma non danno alla parola la possibilità di mettere radici; il terreno pieno di rovi, quelli che si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni e dai piaceri della vita; il terreno buono quelli che ascoltano e portano frutto con perseveranza.
Leggendo, noi potremmo essere tentati di sorvolare in fretta sulle prime tre categorie, aspettando di arrivare alla quarta che, pur con tutti i limiti, pensiamo sia il caso nostro. In realtà – e qui sta la sorpresa – il terreno buono sono quelli che, senza sforzo, si riconoscono in ognuna delle tre categorie precedenti! Quelli che umilmente riconoscono quante volte hanno ascoltato distrattamente, quante volte sono stati incostanti nei propositi suscitati in loro dall’ascolto di una parola del Vangelo, quante volte si sono lasciati sopraffare dall’attivismo e dalle preoccupazioni materiali. Ecco, costoro, senza saperlo, stanno diventando il vero terreno buono. Che il Signore ci conceda di essere anche noi del loro numero!
A proposito del dovere di accogliere la parola di Dio e di non lasciarne cadere nessuna nel vuoto, ascoltiamo l’esortazione che dava ai cristiani del suo tempo uno dei più grandi cultori della parola di  Dio, lo scrittore Origene:
“Voi che siete soliti prendere parte ai divini misteri, quando ricevete il corpo del Signore lo conservate con ogni cautela e ogni venerazione perché nemmeno una briciola cada a terra, perché nulla si perda del dono consacrato. Siete convinti, giustamente, che sia una colpa lasciarne cadere dei frammenti per trascuratezza. Se per conservare il suo corpo siete tanto cauti – ed è giusto che lo siate –, sappiate che trascurare la parola di Dio non è colpa minore che trascurare il suo corpo”[8].

  1. Contemplare la Parola

La seconda tappa suggerita da san Giacomo consiste nel “fissare lo sguardo” sulla parola, nello stare a lungo davanti allo specchio, insomma nella meditazione o contemplazione della Parola. I Padri usavano a questo riguardo le immagini del masticare e del ruminare. “La lettura – scriveva Guigo II– offre alla bocca un cibo sostanzioso, la meditazione, lo mastica e lo frantuma”[9]. “Quando uno richiama alla memoria le cose udite e dolcemente le ripensa in cuor suo, diventa simile al ruminante”, dice sant’Agostino[10].
L’anima che si guarda nello specchio della Parola impara a conoscere “com’è”, impara a conoscere se stessa, scopre la sua difformità dall’immagine di Dio e dall’immagine di Cristo. “Io non cerco la mia gloria”, dice Gesù (Gv 8, 50): ecco, lo specchio è davanti a te e subito vedi quanto sei lontano da Gesú se cerchi la tua gloria; “beati i poveri di spirito”: lo specchio è di nuovo davanti a te e subito ti scopri pieno ancora di attaccamenti e pieno di cose superflue, pieno soprattutto di te stesso; “la carità è paziente…” e ti accorgi di quanto tu sei impaziente, invidioso, interessato. Più che “scrutare la Scrittura” (cf Gv 5, 39), si tratta di lasciarsi scrutare dalla Scrittura.
“La parola di Dio – dice la Lettera agli Ebrei – è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” (Eb 4, 12-13).
Nello specchio della Parola, per fortuna, non vediamo soltanto noi stessi e la nostra deformità; vediamo prima di tutto il volto di Dio; meglio, vediamo il cuore di Dio. La Scrittura, dice san Gregorio Magno, è “una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura; in essa si impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio”[11]. Anche per Dio vale il detto di Gesù: “La bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12, 34); Dio ci ha parlato, nella Scrittura, di ciò che riempie il suo cuore, cioè l’amore. Tutte le Scritture sono state scritte per questo scopo: che l’uomo potesse capire quanto Dio lo ama, e lo capisse per infiammarsi d’amore verso di lui[12]. L’anno giubilare della misericordia è un’occasione magnifica per rileggere tutta la Scrittura da questa angolatura, come  la storia delle misericordie di  Dio.

  1. Fare la Parola

Arriviamo così alla terza fase del cammino proposto dall’apostolo Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola…, chi la mette in pratica, troverà la sua felicità nel praticarla… Se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era”.
Questa è anche la cosa che più sta a cuore a Gesù: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8, 21). Senza questo “fare la Parola”, tutto resta illusione, costruzione sulla sabbia (Mt 7, 26). Non si può neppure dire di aver compreso la Parola perché, come scrive san Gregorio Magno, la parola di Dio si capisce veramente solo quando la si comincia a praticare[13].
Questa terza tappa consiste, in pratica, nell’obbedire alla Parola. Le parole di Dio, sotto l’azione attuale dello Spirito, diventano espressione della vivente volontà di Dio per me, in un dato momento. Se ascoltiamo con attenzione, ci accorgeremo con sorpresa che non c’è giorno in cui, nella liturgia, nella recita di un salmo, o in altri momenti, non scopriamo una parola della quale dobbiamo dire: “Questo è per me! Questo è quello che oggi devo fare!”
L’obbedienza alla parola di Dio è l’obbedienza che possiamo fare sempre. Di obbedienze a ordini e autorità visibili, capita di farne solo ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella vita, se si tratta di obbedienze serie; ma di obbedienze alla parola di Dio ce ne può essere una ogni momento. È anche l’obbedienza che possiamo fare tutti, sudditi e superiori. Sant’Ignazio d’Antiochia dava questo meraviglioso consiglio a un suo collega di episcopato: “Nulla si faccia senza il tuo consenso, ma tu non fare nulla senza il consenso di Dio”[14].
Obbedire alla parola di  Dio significa, in pratica, seguire le buone ispirazioni. Il nostro progresso spirituale dipende in gran parte dalla sensibilità alle buone ispirazioni e dalla prontezza con cui vi rispondiamo. Una parola di  Dio ti ha suggerito un proposito, ti ha messo in cuore il desiderio di una buona confessione, di una riconciliazione, di un atto di carità; ti invita a interrompere un momento il lavoro e rivolgere a  Dio un atto d’amore. Non porre indugio; non fare che passi.  “Timeo Iesum transeuntem”, diceva lo stesso Agostino[15]; come dire: “Ho paura della sua buona ispirazione che passa e non torna”.
Terminiamo con il pensiero di un antico Padre del deserto[16]. La nostra mente, diceva, è come un mulino; il primo grano che vi viene messo al mattino, quello continua a macinare per tutto il giorno. Affrettiamoci perciò a mettere in questo mulino, fin dal primo mattino, il buon grano della parola di Dio, altrimenti, viene il demonio e vi mette la sua zizzania  e per tutto il giorno la mente non farà che macinare zizzania. La parola particolare che potremmo mettere oggi nel mulino della nostra mente è quella proposta come motto dell’anno giubilare: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste”,
*
NOTE
[1] S. Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 80, 3.
[2] J.B. Bossuet, Sur la parole de Dieu, in Œuvres oratoires de Bossuet, III, Desclée de Brouwer, Paris 1927, p. 627.
[3] S. Agostino, Confessioni, VIII, 29.
[4] Dei Verbum, n. 21.
[5] Guigo II, Lettera sulla vita contemplativa (Scala claustralium), 3, in Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Edizioni Paoline, Milano 1986, p. 22.
[6] Dei Verbum, n. 25.
[7] S. Kierkegaard, Per l’esame di se stessi. La Lettera di Giacomo, 1, 22, in Opere, a cura di C. Fabro, cit., pp. 909 ss.
[8] Origene, In Exod. hom. XIII, 3.
[9] Guigo II, Lettera sulla vita contemplativa (Scala claustralium), 3, in Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Edizioni Paoline, Milano 1986, p. 22.
[10] S. Agostino, Enarr. in Ps., 46, 1 (CCL 38, 529).
[11] S. Gregorio Magno, Registr. Epist., IV, 31 (PL 77, 706).
[12] S. Agostino, De catech. rud., I, 8.
[13] S. Gregorio Magno, Su Ezechiele, I, 10, 31 (CCL 142, p. 159).
[14] S. Ignazio d’Antiochia, Lettera a Policarpo 4, 1.
[15] S. Agostino, Discorsi, 88, 14, 13.
[16] Cf. Giovanni Cassiano, Conferenze, I, 18.

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Raniero Cantalamessa

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