Barca

Il fallimento precede sempre l'incontro con Lui

Commento al Vangelo della V Domenica del Tempo Ordinario, Anno C — 7 febbraio 2016

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La Chiesa comincia a nascere da quel giorno sul lago di Galilea, da una barca che era di Pietro, e diventa quella di Gesù. Ne prende possesso e vi si siede, come un Re sul suo trono, come lo Sposo che entra nella sua casa per unirsi alla sua sposa. Da quel momento Pietro non sarà più lo stesso, la barca solcherà altri mari, le reti pescheranno altri pesci. E al principio di tutto una chiamata che rimbalza immediatamente in una missione. Nessuna chiamata, infatti è mai fine a se stessa; Dio chiama e invia, sempre.
Spesso ci equivochiamo e ci disperdiamo contemplandoci nello specchio d’un disperato Narciso deluso, esattamente come Pietro dinanzi all’enorme squilibrio tra lui e Gesù; più spesso ci afferriamo alla chiamata e ne facciamo una ragione di vita, un idolo da cui cercare il successo che magari chiamiamo zelo. Ma non è così. Gesù prende possesso della nostra vita, del suo fondamento, delle nostre fibre più intime, come ha fatto con Pietro entrando nella sua barca, che era il suo sostentamento, il suo cibo, la sua vita.
Gesù ci cerca, vuole esattamente noi, come ha voluto Pietro e la sua barca in mezzo a tante altre, come ha voluto gli altri Undici: “Scelse quelli che egli volle”. La volontà di Dio che è il suo amore gratuito costituisce il cuore e il fondamento della chiamata. Chi era Pietro, che cosa avesse fatto, quale il suo carattere, le sue predisposizioni, i suoi sentimenti, nulla ci è dato sapere. Aveva una barca, era un pescatore, e tanto è bastato. E’ il mistero più profondo della Chiesa: una barca tra mille, povera, debole, fragile, è il sacramento di salvezza per tutte le Nazioni.
Così come per ciascuno di noi; inutile cercare caratteristiche, idoneità, prerogative interiori o intellettuali, non sono importanti. Anzi, è importante non aver pescato nulla… Questa Domenica infatti, il Signore ci annuncia che il fallimento precede sempre l’incontro con Lui, perché il peccato non è l’ultima possibilità. Non a caso in ebraico il termine “peccato” ha il significato di “fallire il bersaglio”. E’ l’esito della nostra libertà consegnata alla menzogna del demonio. Per un peccatore è normale faticare e non prendere nulla, e solo chi non si sente così si stupisce e adira di fronte alle proprie cadute. Chi ha creduto di poter diventare come Dio deve inciampare sul suo essere una creatura che, senza di Lui, di nulla è capace.
Ma Gesù si è fatto peccato, è entrato nel fallimento della Croce per incontrare Pietro e ogni uomo. Per questo, prendendo di nuovo il largo nello stesso specchio d’acqua nel quale aveva faticato senza prendere nulla, Pietro accettava di entrare un’altra volta nel suo fallimento. Ma quella volta era diverso, lo faceva appoggiandosi alla Parola di Gesù, che è come dire che entrava nel mare accompagnato da Lui. E così ha sperimentato la sovrabbondanza di vita proprio dove aveva vissuto il proprio fallimento. In quel mare che aveva significato il nulla della morte ha conosciuto il potere di Gesù; per questo si è riconosciuto peccatore chiedendo a Gesù di allontanarsi da lui. Pietro ha cominciato in quel momento il suo lungo cammino di fede alla sequela del Signore, che lo avrebbe condotto, in quello stesso luogo, a sentirsi amato sino alla fine proprio mentre riconosceva di essere un traditore incapace di amare sino a dare la propria vita.
Anche noi abbiamo bisogno di fare la stessa esperienza, perché forse siamo ancora illusi di poter fare qualcosa… Ma il Signore sa che anche questa Domenica c’è il nostro fallimento ad accoglierlo. Non andiamo a messa per presentare la nostra pesca di opere buone e ricevere in premio il suo Corpo e il suo sangue. Veniamo da una settimana di fallimenti, nella certezza che durante la celebrazione si compie lo stesso miracolo d’amore sperimentato da Pietro. 
L’Eucarestia, infatti, è un passo in più nel nostro cammino di fede, nel quale il Signore ci invita ad ascoltare la sua Parola che viene proclamata e ad appoggiarsi su di essa perché illumini i nostri fallimenti, le volte nelle quali non siamo stati capaci di amare chi ci è accanto. Se li accettiamo potremo accogliere il Mistero Pasquale che si compie sull’altare nel quale Cristo ci ama sino alla fine dei nostri fallimenti per offrirsi a noi e unirci a Lui così come siamo, e così colmare il nostro nulla della sua vita sovrabbondante.
La Buona Notizia fratelli, è che Gesù ci cerca proprio dove noi vorremmo nasconderci per la vergogna, proprio come fece il Padre con Adamo dopo il peccato. Forse per questo ha scelto la barca di Pietro; nelle altre aveva forse scorto qualche pesce… Ma Lui aveva da sempre pensato a Pietro, al più fallito, e in lui a tutti i falliti della storia, sino a ciascuno di noi. Quella notte di pesca infruttuosa, infatti, è notte benedetta, come la notte del Sepolcro di Gerusalemme.
Come le notti della Creazione, del sacrificio di Isacco, dell’Esodo, del Messia, di cui parla il “Poema delle Quattro Notti” del Targum al libro dell’Esodo. Quante volte Pietro avrà ascoltato questo commento che traduceva nella sua lingua aramaica il brano dell’esodo che riguarda la Pasqua: «La prima notte, quando Jahvè si manifestò sul mondo del creato; il mondo era confusione e caos e le tenebre ricoprivano la superficie dell’abisso e la parola di Jahve era la luce che brillava: ed egli la chiamò Prima notte. La seconda notte, quando Jahvè si manifestò ad Abramo vecchio di cento anni e a Sara, sua moglie, di novanta anni perché si adempisse la Scrittura. Come mai Abramo a cento anni sta per generare e Sarà, sua moglie, a novanta sta per partorire? E la chiamò Seconda notte. La terza notte, quando Jahvè si manifestò agli Egiziani nel mezzo della notte: la sua mano uccideva i primogeniti degli Egiziani e la sua destra proteggeva i primogeniti d’Israele, perché si adempisse ciò che dice la Scrittura: il mio figlio primogenito è Israele e la chiamò Terza notte. La quarta notte, quando il mondo giungerà alla sua fine per essere sciolto: le catene di ferro saranno spezzate e le generazioni dell’empietà saranno distrutte e Mosè verrà dal deserto e il Re Messia dall’alto. È la notte della Pasqua per il nome di Jahve, stabilita e consacrata per la salvezza di tutte le generazioni di Israele. Questa è la Quarta notte».
La notte è dunque un seno gravido di vita che prepara e accoglie l’avvento del Messia. Il segno che Gesù compie testimonia che finalmente è arrivato. I pesci, immagine degli uomini che la Chiesa pescherà nei secoli, sono liberati dalle catene di ferro, è dunque giunto il Messia. “E’ il Messia” griderà Pietro quella mattina di Pasqua, riconoscendolo proprio da quel segno che Gesù avrebbe ripetuto in quel medesimo luogo; “è il Signore, lo aveva profetizzato quando mi ha chiamato e ha preso la mia vita”. Perché la notte apre il cammino al Signore, sempre.
Gesù prende possesso anche oggi della barca di Pietro per farne la sua sinagoga, la cattedrale dove il Maestro insegna annunciando la sua Parola e la compie in quanti, una volta ascolta e accolta, sono chiamati a farne parte. La Parola di Gesù nell’intimo della comunità, una volta fatta carne nei cristiani, diventa l’esca prelibata con cui pescare gli uomini dal mare della morte, proprio come pesci in cerca di cibo.
Così la chiamata di Dio prende la nostra vita e la trasforma in benedizione per tutti; sembra qualcosa di personale, è invece affare che riguarda il mondo intero e la sua salvezza. Quando è afferrata dal Signore, la nostra vita smette d’essere una rete arrotolata su se stessa, nevrosi e angosce su come stare al mondo per essere accettati e amati; e diventa una fonte di acqua viva capace di dissetare tutti, un seno di misericordia per chiunque si imbatta nelle nostre esistenze; non ci apparteniamo più, diveniamo la barca dove è seduto Gesù, e in Lui diveniamo un dono di Grazia per tutti.
Ma la barca deve essere “scostata da terra”. Per questo la Chiesa è sempre “guardata” da Gesù mentre “lava le sue reti”, nella tentazione di ripiegarsi su se stessa a causa dei peccati dei suoi membri, delle difficoltà e dei fallimenti della missione; e Pietro ogni giorno è di nuovo “pregato di scostarsi un poco da terra” perché sempre in agguato la tentazione di restare al sicuro sulla terra ferma. Ma Gesù non può insegnare mentre la folla fa ressa intorno, per questo la Chiesa non può restare sulla sabbia: essa è nel mondo ma non è del mondo, legata ad esso nell’amore a ogni persona, ma libera per salpare ed entrare nel mare della morte. 
Fratelli, la Chiesa è il corpo di Cristo, la comunione (secondo la parola greca “koinonoi “utilizzata alla fine del brano) di quelli che erano stati semplici “soci” in affari e che in Lui sono diventati fratelli oltre la carne. Con il Signore possono gettarsi nel mondo a “catturare vivi”, come recita l’originale greco del verbo “pescare”, tutti coloro che, nel mondo e nelle generazioni, giacciono morti nella notte.
La nostra vita è per loro, gettata da Dio come una rete di misericordia per riportarli a casa. Ciò significa accorgerci della loro barca, dando importanza alla loro vita ormeggiata nella massa con le reti vuote; avvicinarci senza pregiudizi ed entrare nella barca, farsi tutto a tutti, non temere di sporcarci perché altrimenti ogni altra parola o gesto saranno inutili. Coraggio, non temere di salire sulla barca dei perdenti, perché la fede ci fa vedere nel fratello più debole e corrotto il “pescatore di uomini” che diventerà per il potere del Vangelo.
Solo dopo essere entrati nel suo dolore, partecipando alla sua delusione e caricando i suoi peccati, potremo chiedere di “scostarsi un poco da terra” per annunciargli il Vangelo. “Finito di parlare”, quando cioè la Parola ha preparato il terreno mostrando in noi il suo potere di compiere l’impossibile di un amore che accoglie senza esigere e giudicare, si potrà chiedere l’impossibile di “prendere il largo” per inoltrarsi laddove ha fallito per “gettarvi” la propria vita. Accompagnarlo cioè con l’offerta di noi stessi a “calare le reti” di nuovo nel mare, perché “sulla Parola di Gesù” resa credibile dalla testimonianza della Chiesa, quello che aveva prodotto morte ora genererà vita! 
Fratelli, che meraviglia incontrare il Signore! La vita cambia radicalmente, e senza alcuno sforzo. Quando siamo chiamati a gettare via “tutto”, è per sperimentare che “tutto” di noi è importante, anche i difetti e addirittura i peccati, perché proprio attraverso di essi possiamo conoscere l’amore di Dio e annunciarlo a tutti.

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Antonello Iapicca

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