Un appello alle autorità internazionali “perché facciano il possibile per mettere la parola fine alla tragedia che tante famiglie cristiane stanno vivendo per le violenze dell’Isis”. A lanciarlo da piazza San Pietro sono il parroco della chiesa di San Giorgio, padre Yoshia Sana, e la giovane sindaco di Mangesh, Sabeeha Shamoon, nel Kurdistan iracheno.
I due hanno raccontato al Papa la difficile realtà dei cristiani in quella regione. “Al momento — spiegano a L’Osservatore Romano — nella nostra zona c’è una relativa sicurezza. Però a mancare è anzitutto il lavoro e i salari non vengono pagati da cinque mesi. Ne stanno facendo le spese soprattutto i giovani che hanno perso ormai ogni speranza di avere un futuro degno di questo nome”.
Aumenta così in maniera impressionate il numero di coloro che fuggono dal paese. “Prima della crisi provocata dall’Isis, a Mangesh c’erano 450 famiglie cristiane: ne sono rimaste solamente 140. E hanno anche dovuto lasciare le loro case, trovando riparo in abitazioni fatiscenti”, raccontano il sacerdote e il sindaco.
Sempre meglio però, fanno notare, “degli alloggi di fortuna dove sono ospitati i tantissimi profughi, cristiani e non, venuti dalla valle di Ninive. Si continua a fare il possibile per aiutarli, condividendo il poco che abbiamo”. In fondo, dicono, “non chiediamo molto: solo la possibilità di tornare a vivere in pace nella nostra terra”.
E come auspicio, hanno regalato a Francesco un piccolo tappeto, tessuto a mano secondo un’antica tradizione curda, che raffigura due donne intente a fare il pane, “segno di pace”. Una storia di dolore a cui ha fatto eco anche la testimonianza di una famiglia siriana.