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Bioetica nella sanità

Il presidente emerito della Corte Costituzionale e presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, introduce alla lettura del libro di Carlo Petrini

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È solo dal 1970 che è in uso il neologismo Bioethics, e già di questo insieme di saperi, destinato a porre alla medicina domande essenziali sulla rispondenza del suo progresso ai valori irrinunciabili della persona umana, si criticano gli ostacoli eretti contro la liberta della ricerca scientifica e della pratica clinica. L’equilibrio e la saggezza dell’Autore di questa raccolta di interventi molto giovano alla delucidazione del quadro problematico. Da un canto si rifiuta la dignità umana come perno di una pretesa ideologizzazione antiscientifica; dall’altro non si può non registrare il contributo positivo della bioetica all’avanzamento della medicina. “L’etica non ha soffocato la medicina, ma forse ha bisogno di essere nuovamente salvata, per affrancarsi dalla burocrazia, dalle sterili dispute politiche, dallo stato liquido tipico di tanta parte delle nostre società”.

Nello stesso orizzonte rientrano movimenti culturali, quale quello della “medicina personalizzata”, tendente ad ottenere il migliore e massimo risultato sia nella ricerca sia nella terapia, evitando ogni spreco, e coinvolgendo i cittadini in una partecipazione attiva con i ricercatori. In questa versione democratica della medicina, da sempre invece dominata dal paternalismo e dall’isolamento professionale dei medici, ha un ruolo fondamentale il consenso informato del malato. Si vuole così rispondere ad una esigenza non solo conoscitiva ma etica sulla natura della terapia, se innovativa e dunque ancora sperimentale, o già consolidata. E tuttavia i confini tra ricerca di laboratorio e pratica clinica sono incerti, ed è per questo inabolibile dubbio su nocività e beneficio, che investe sia il curante che il paziente, che talvolta si impone la valutazione di un comitato etico. A meno che non ci si affidi al calcolo di eventuali rischi di danno. Va evitato in ogni caso il cosiddetto “fraintendimento terapeutico”, consistente nell’atto di fede nelle buone cure che si ottengono nella fase delle ricerche in corso. Occorre guardarsi dall’equivoco di usare il malato come una cavia da esperimento. Sul punto non lascia dubbi la Dichiarazione di Helsinki dell’Associazione medica mondiale: “sebbene lo scopo primario della ricerca medica sia quello di generare nuove conoscenze, queste non possono prevaricare sui diritti e sugli interessi dei singoli soggetti coinvolti nella ricerca”.

Va spenta ogni enfasi entusiastica per i progressi della conoscenza. Petrini ricorda che due uomini politici, Bill Clinton negli Stati Uniti, Tony Blair in Inghilterra, a proposito delle ricerche sul genoma, evocarono Galileo Galilei che trovò “il linguaggio con cui Dio ha creato l’universo”, laddove il Progetto Genoma Umano ha scoperto “il linguaggio con cui Dio ha creato la vita”. Proprio nell’ambito della genomica sono frequenti gli errori da correggere, e le applicazioni terapeutiche replicano la necessità del ricorso alla medicina adattativa. In oncologia, ad esempio, non ha pari efficacia lo stesso farmaco per pazienti diversi. Con una solo apparente paradossalità si potrebbe dubitare che nell’era della genomica la medicina abbia a che fare con una entità biologicamente unitaria del genere umano, e non invece con una infinità di individui. Quanto questi mutamenti epocali nella scienza influiscano sulla relazione tra medico e paziente è evidente nel dialogo tra i due interlocutori per la formulazione del consenso informato. Il medico dovrebbe poter rispondere alle domande del paziente sui rischi e sulle alternative della terapia, ma potrebbe non esservi domanda per assenza di competenze conoscitive del malato.

In tal caso, nell’eventualità di controversia, il medico sarebbe scagionato da responsabilità. Una sentenza britannica del 2015, sul punto, con gradevole ironia, osserva che: “c’è qualcosa di surreale nell’attribuire l’onere della domanda al paziente, il quale potrebbe non essere consapevole del fatto che vi è qualcosa da chiedere”. Il nostro Autore, pur riconoscendo la portata storica di una sentenza contro il tradizionalismo paternalistico dei medici, ricorda tre eccezioni al principio del dialogo: la prima, quando il paziente chiede di non essere informato; la seconda, quando la informazione danneggerebbe la sua salute; la terza nel caso del paziente privo di coscienza e del dovere del medico in tale emergenza di intervento immediato.

Entriamo così nell’ambito della cosiddetta “medicina difensiva”, insieme di cautele per scansare responsabilità nel curante, e incontriamo decisioni giudiziarie che richiamano il medico al dovere di badare più al caso clinico singolo, che alle tipologie codificate o a linee guida generali. Il medico deve dunque essere uomo di buon senso entro la competenza e l’esperienza professionale. Deve saper valutare la categoria del rischio. Petrini ha in proposito una battuta da non dimenticare. Contro il rischio degli incidenti stradali “sarebbe irrealistico vietare l’uso delle automobili o imporre il passo d’uomo come limite massimo di velocità”.

Nasce così la categoria del “miglior interesse”, alternativo al “rischio minimo”. Chi dovrà stabilire nel caso di un bambino il suo migliore interesse, i genitori o il medico? Il nostro Autore saggiamente conclude: “Trovare soluzioni definitive e univoche, è probabilmente impossibile”. Egli propone tre percorsi, procedere caso per caso, soppesare tutti gli elementi in gioco, chiedere autorizzazione ad un comitato etico. Insomma, non solo va rivalutata la natura empirica della scienza medica, ma va seguito con discernimento il suo pendolare con la bioetica, così come di questa lo scegliere posizioni più permissive, quando l’assolutezza di irrevocabili principi oscurino la visuale di benefici derivanti da soluzioni pratiche. In questa costante ricerca di equilibri si rivelano retroterra di culture nazionali. La bioetica nordamericana è riconoscibile ad esempio nella sollecitudine per il rispetto della persona, per la preoccupazione del benessere, per la giustizia. Ma proprio perciò è utile per l’intero mondo occidentale una sinergia di persuasioni comuni. Una ipotesi non dappoco: smettere di considerare il bambino come un piccolo adulto, cui somministrare dosi ridotte degli stessi preparati industriali programmati e prodotti per una popolazione adulta.

L’individuo umano va riscoperto nella sua complessità in tutto l’arco della vicenda, dalla nascita alle malattie acute e croniche, alle disabilità, alla morte. La rotta di una nuova scoperta dell’uomo passa per la pratica clinica purché sia anch’essa, come la ricerca sperimentale, integrata dalla consulenza bioetica. La sempre sottesa connessione della medicina con il mondo economico non può non toccare un punto cruciale nel principio della non commerciabilità del corpo umano. Nel capitolo su questo tema, l’Autore allinea commercio illegale, donazioni permesse ma onerose, campioni prelevati a scopo di ricerca, tariffe versate da strutture sanitarie a biobanche. C’è materia su cui i cittadini andrebbero informati.

L’economia del dono nasconde talvolta sfruttamento di poveri, mentre dovrebbe alimentarsi solo di generosità e di altruismo. Di quella pendolarità tra scienza ed etica non si finisce mai di registrare nuovi segmenti. Neurotecnologie pongono in questione non solo la consapevolezza del consenso, ma anche la privatezza di informazioni su gruppi e persone, con effetti di discriminazione o stigmatizzazione, quando non addirittura incertezza sulla loro attendibilità. La incertezza delle informazioni, poi, causa il ricorso al principio di precauzione, che va interpretato tuttavia non come astensione, ma azione nella incertezza degli esiti. Il Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace puntualizza il principio di precauzione come volto ad accogliere “l’esigenza di una decisione provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze che vengano eventualmente raggiunte”. In ipotesi alternative non va esclusa la scelta di
non intervenire.

Il panorama tematico, necessariamente qui appena delineato rispetto alle ampie e accurate analisi di Carlo Petrini, vede protagonisti anche gli Stati, come ad esempio nel contrasto del traffico di organi umani da viventi. In argomento l’Autore cita le parole di Benedetto XVI: “Gli abusi nei trapianti e il loro traffico, che toccano persone innocenti quali i bambini, devono trovare la comunità scientifica e medica prontamente unite nel rifiutarli come pratiche inaccettabili. Esse pertanto vanno decisamente condannate come abominevoli”. Si incontrano in questo libro passaggi che lo abilitano a presentarsi come il più aggiornato contributo alla conoscenza della recente evoluzione delle interconnessioni tra i progressi della ricerca medica e la loro utilizzazione nella terapia e nella pratica clinica, insieme alla acquisizione di una cultura bioetica da parte di tutti, autori ed attori coinvolti nell’impegno della salvaguardia della salute dell’uomo. 

 

 

 
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ZENIT Staff

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