L’Anno Santo della Misericordia sarà un Giubileo assai atipico per svariate ragioni. Una di queste è l’apertura della Porta Santa non solo a Roma ma in tutte le diocesi del mondo, peraltro in giornate diverse. Ancor più sorprendente è stata però la decisione di papa Francesco di aprire la prima Porta Santa a Bangui, il prossimo 29 novembre, durante la sua visita pastorale nella Repubblica Centrafricana. Con una decina di giorni di anticipo sull’inizio ufficiale, il Giubileo prenderà quindi il via in una delle “periferie” più dimenticate della terra. Un paese in cui, all’onnipresente miseria, si è aggiunta la tragedia di una guerra civile che sembra essersi incanalata in un tunnel senza uscita, complice anche la totale indifferenza della comunità internazionale. In questo inquietante scenario, l’unico vero barlume di speranza è rappresentato dalla Chiesa Cattolica e dai suoi coraggiosi missionari. Uno di questi è padre Aurelio Gazzera, 53enne carmelitano, originario di Cuneo. Operativo in Centrafrica da 24 anni, padre Gazzera ricopre attualmente l’incarico di direttore della Caritas di Bouar. A ZENIT il missionario piemontese ha illustrato la delicatissima situazione politica del paese, dove comunque l’incolumità del Santo Padre non dovrebbe essere a rischio.
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Padre Aurelio, come si sta preparando il Centrafrica alla visita di papa Francesco?
Il Centrafrica ha accolto con sorpresa e con molta gioia la notizia della volontà del Papa di venire in visita. Siamo un paese grande due volte l’Italia, ma con soli 4 milioni e mezzo di abitanti. E, soprattutto, in guerra da quasi tre anni. Prima l’arrivo della Seleka, un’alleanza di ribelli, a maggioranza musulmana, provenienti dal Nord del paese, ma anche dal Ciad e dal Sudan. Poi la reazione, con gli antibalaka, e la guerriglia che continua ancora adesso: ci sono circa 830.000 tra rifugiati all’estero e sfollati (un quinto della popolazione!). La preparazione ferve in seno alla comunità cattolica, con riunioni e organizzazioni varie, e momenti di preghiera che stanno cercando di preparare i cristiani ad accogliere Pietro, e soprattutto ad interrogarsi sulla fede e sulla storia del paese. Anche i non cattolici sono molto contenti di questa visita, che tutta la popolazione sente come molto importante e, allo stesso tempo, esigente. Per il resto… non si vedono molti preparativi, tenendo anche conto del fatto che, dalla fine di settembre, la situazione a Bangui è molto peggiorata.
Le cronache di questi giorni parlano di una situazione politica incandescente nel paese. Ritiene la venuta del Papa sia a rischio?
Certamente non sarà una passeggiata, ed immagino che molti stiano trattenendo il respiro… Non penso che il Papa sia particolarmente esposto, perché ci sarà senz’altro un dispositivo di sicurezza all’altezza della situazione. Io sono più preoccupato per la gente che verrà a vederlo e ad ascoltarlo, che invece sarà meno protetta e più vulnerabile. Purtroppo assistiamo da troppo tempo ad un’escalation di violenza e di attacchi, quindi non si può escludere niente. Oltretutto non c’è coordinamento, né unità all’interno delle varie parti in guerra (musulmani e non musulmani) e questo rappresenta un ulteriore problema.
Che significato attribuisce alla decisione del Santo Padre di aprire la Porta Santa in anticipo a Bangui?
È una notizia eccezionale, che il Papa ci aveva anticipato già quasi due mesi fa, segno che è una sua personale decisione. È un segno bellissimo, che porta in primo piano un paese sconosciuto, che ha grande bisogno di lasciarsi convertire dalla Misericordia del Padre. È anche un bel segno di riconoscenza per la Chiesa Cattolica, che è sempre stata in prima linea nell’accoglienza di tutti, cristiani e musulmani, e che, grazie alla voce di molti pastori – primo tra tutti l’Arcivescovo di Bangui, mons. Dieudonné Nzapalainga – rappresenta praticamente l’unico baluardo alla follia della guerra e della distruzione.
Nel paese i musulmani sono circa il 15%. Che tipo di Islam è quello centrafricano?
Fino a prima dell’arrivo della Seleka, la convivenza era abbastanza buona. I musulmani avevano in mano il commercio, i trasporti e gran parte dell’allevamento, ed in genere le due comunità si completavano abbastanza bene. L’arrivo della Seleka, con ribelli che parlavano quasi solo arabo, ha complicato la situazione: alcuni musulmani hanno approfittato della situazione, altri li hanno appoggiati apertamente, il che, con l’inizio dei combattimenti tra Seleka e antibalaka, ha portato ad identificare la Seleka con i musulmani. Non bisogna poi dimenticare che esisteva anche un fondo di timore, causato da fatti storici (le razzie di schiavi ad opera di commercianti musulmani, qui nella zona, sono durate fino al 1930) e da tensioni ricorrenti soprattutto tra agricoltori e allevatori (questi ultimi costituiti piuttosto dai Peul, di religione musulmana).
Nel drammatico contesto della guerra civile, vi sono anche fattori legati all’appartenenza religiosa o il conflitto è di natura eminentemente politica o tribale?
La questione religiosa è molto secondaria. Pur avendoli frequentato a lungo, non ho mai sentito gli antibalaka prendere a pretesto degli attacchi contro i musulmani il fattore religioso. Dietro c’è piuttosto un senso di inferiorità ed una gelosia che ha portato ai saccheggi e alla distruzione delle case e dei beni dei musulmani. Inoltre, c’è dietro il fattore politico (l’egemonia di paesi come il Ciad, il Sudan, i paesi del Golfo Arabo).
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Per approfondimenti leggere la precedente intervista a padre Aurelio Gazzera