«È la cultura del relativismo a spingere le persone ad usarsi a vicenda e a trattarsi come meri oggetti». Le parole di Papa Francesco pongono interrogativi che coincidono con la scommessa raccolta dal convegno ecclesiale nazionale svoltosi in settimana a Firenze: sarà possibile stare nella società del relativo senza diventare relativisti? E si potrà proporre un umanesimo nuovo, partendo da un modello già tutto definito, qual è quello di Cristo?
A ben vedere, si tratta della riformulazione nell’oggi di una domanda che ha percorso tutto il Novecento: come prendere atto del prevalere di una cultura empirico-scientifica, senza abbandonare le istanze umanistiche di un metodo che non riduca l’essere umano ai risultati di dati soltanto quantitativi, seppur molto raffinati, quali sono gli apporti della genetica, delle tecnoscienze, della neuro-etica?
Facciamoci caso: la stessa conquista generalizzata di difesa dei diritti della persona invece di favorire, come pure vorrebbe, il rispetto della dignità umana, o la condivisione di valori – almeno tendenzialmente – universalizzabili, non soltanto non dà luogo a un’etica comune, ma esaspera la difesa dei diritti soggettivi. Fino al punto che il sacrosanto diritto alla vita viene invocato per eliminare la vita di un altro essere vivente umano, ancorché embrionario.
Dal punto di vista cristiano, allora, si tratta di praticare l’affidabilità di Cristo in tempi di modernità avanzata, di crollo delle sicurezze di tipo metafisico, di rischio di omologazione di verità trascendenti a deboli criteri umani senza fondamenti e perfino senza certezze. Le indicazioni emerse in sede sinodale sono dei verbi di azione per innescare meccanismi di cambiamento nella situazione italiana. Verba agendi, del resto, sono anche quelli della Bolla pontificia d’indizione dell’Anno giubilare straordinario della misericordia, che coinvolge tutti i credenti in un processo di mobilitazione non violenta per far prevalere perdono e misericordia su condanna e presa di distanza e ricordare che le porte esistono non soltanto per chiudere, ma soprattutto per uscire e andare, come pure per accogliere chi è stato escluso e scartato da ogni parte e aspetta di partecipare a un boccone di quanto preparato a mensa.
Ecce homo: ecco il volto della Chiesa che, come ha ricordato il Papa ai 2.550 delegati ritrovatisi in riva all’Arno, non prende i segni del giudizio, bensì quelli della passione. Segni umili e di scarto, segni di sofferenza e morte. Magari scoprendo che piuttosto che parlare occorre fare. Sorretti da pastori che stanno in mezzo al gregge come in una metropolitana affollata: reggono perché sono a loro volta sorretti. Esattamente il percorso che il beato Giacomo Cusmano indicava descrivendo se stesso metaforicamente: «Io sono tizzone che nel mezzo del fuoco brucia facendo sempre fumo. Bisogna essere sempre stizzonati», cioè ravvivati nella propria energia ardente. L’unico modo per non restare mai tiepidi, disinteressati dell’altrui destino: dilatare il cuore. È la sorte di chi cristianamente sceglie di farsi pellegrino e tutto compie solo per amore.