“Combattere fino in fondo il cancro della corruzione e il veleno della illegalità”. Papa Francesco lo chiede a tutti noi, concludendo il suo discorso rivolto ai fedeli durante l’incontro nella piazza della Cattedrale di Prato. La parola corruzione deriva dal latino: corruptio, composto da con- e rumpere, rompere.
Chi corrompe o viene corrotto rompe di fatto un equilibrio naturale, una integrità morale, una armonia vitale. Oggi il termine corruzione è di solito associato agli ambiti della politica e delle istituzioni nelle loro diverse articolazioni. L’immagine che evoca è quella di una crepa; di una rottura rispetto alla rettitudine pretesa da un certo ruolo; di una resa alla cupidigia; di un raggiro egoista che sgretola un patto di fiducia con chi abbia concesso una precisa responsabilità.
Uno stile di vita al ribasso che vive anche nei tanti contesti privati e in ben altre postazioni variegate di comunità. Le sue radici sono presenti nella profondità interiore del singolo, pronte a ramificarsi con più forza ogni qualvolta che si perda il rapporto personale con la verità di Dio o da non credenti si “deprezzi” la giustezza oggettiva della propria natura ontologica.
La corruzione è quindi consapevolmente “sistemata” all’interno di tutto ciò che illude l’uomo nel suo prestigio e nel suo potere, ma anche in ogni atto esterno quotidiano che tende a definire il quadro delle sue relazioni e delle sue funzioni ufficiali o private. Meraviglia perciò a primo acchito, mutuando il pensiero di mons. Giampolo Crepaldi, la rara presenza di questa parola nel Magistero Pontificio, specie nel significato che le attribuiscono le scienze sociali e per come la assumono le varie ricerche empiriche.
Tuttavia lo stesso Pastore, già segretario del Consiglio Pontificio della Giustizia e della Pace, scrive: “…non faremmo un lavoro utile se ci proponessimo di cercare in questo o quel luogo del Magistero sociale un riferimento più o meno esplicito al fenomeno della corruzione”. Un atteggiamento che non esclude le diverse chiare scansioni con le quali comunque viene affrontata la questione sia nella Sollicitudo rei socialis, che nella Centesimus annus, compreso lo stesso Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Monsignor Crepaldi va comunque oltre. Sollecita con il suo pensiero puntuale coloro che confidano correttamente nella guida quotidiana della DSC. Li invita ad individuare un giusto approccio di riferimento per evitare la ghigliottina della corruzione ed essere costruttori reali di una società dell’amore e della giustizia. Un contesto chiaro in cui l’uomo non “rompa” gli equilibri e le armonie che il Signore ha creato per la realizzazione di ogni persona.
L’Arcivescovo di Trieste scrive in proposito: ”Piuttosto dobbiamo chiedere alla dottrina sociale della Chiesa i criteri per impostare il problema, le coordinate dei principi e dei valori che ci permettono di illuminare il fenomeno, di spiegarlo non nei suoi dati empirici – compito questo della ricerca sociale –, ma nella sua connotazione etico-sociale ed etico-politica e di prospettare quindi dei possibili percorsi per una efficace lotta alla corruzione. Per questa lotta, infatti, c’è bisogno di conoscere il fenomeno in tutta la sua complessa fenomenologia empirica, ma anche – e ancor prima – di muoversi dentro un quadro di natura etica sufficientemente organico”.
Monsignor Crepaldi ci consegna quattro criteri utili per la lotta all’immoralità, meritevoli di un apposito approfondimento. L’alto prelato si riferisce alla corruzione, per gli aspetti che interessano ad una sua valutazione mirata, come fenomeno “recente”; fenomeno globale e fenomeno immateriale, se non come un male portatore di costi per la comunità, ma anche di benefici qualora quest’ultima sia capace di liberarsene.
Le Sacre Scritture spesso non parlano espressamente della corruzione utilizzando tale termine. Nondimeno è acclarato come sia facile imbattersi in passi illuminanti che direttamente o di riflesso focalizzino la degenerazione del comportamento umano, “rompendo” i principi dettati dal Signore per una giusta convivenza tra gli uomini.
Penso al libro dei Re (1,21), dove si parla della “Vigna di Nebot”. La prepotenza di Gezabele, moglie di Acab, re di Samaria, non è altro che la mera rappresentazione dell’arroganza che matura solitamente in certi ambienti istituzionali, offuscando il lavoro positivo di altri e alimentando la sensazione di una corruzione diffusa, portatrice di sfiducia in una società spesso malata. Nabot di Izreèl che possedeva una vigna vicino al palazzo reale non esitò a rifiutare la proposta di acquisto da parte del re, in quanto eredità dei padri.
Acab accusò il colpo del rigetto, ma la moglie gli venne incontro proponendo dei veri atti “corruttivi” nei confronti degli anziani del regno e sollecitando delle false testimonianze, pronte ad accusare Nebot dinnanzi al popolo, artatamente convocato con un bando sul digiuno, di aver bestemmiato contro Dio e contro il re. Così fu! La inevitabile lapidazione avvenne fuori città, consentendo al sovrano, grazie alla perfida moglie, di appropriarsi della vigna tanto desiderata.
La punizione divina che seguirà, anche se poi rinviata alla discendenza reale, essendosi Acab umiliato davanti a Dio, non sarà altro che il riflesso storico degli atti di corruzione promossi dalla regina, avallati dal re, ufficializzati dagli anziani e dai falsi testimoni. Un quadro antico, ma purtroppo di grande attualità, che solo attraverso la verità del Vangelo, fonte primaria degli indirizzi sociali e politici della Dottrina Sociale della Chiesa, potrà essere ristabilito per il progresso e il benessere sociale di ogni uomo.