Riprendiamo oggi un filo conduttore che costituisce uno dei fondamenti di questa rubrica: quello dei poeti d’ispirazione cattolica del ‘900. Il poeta al quale dedichiamo la nostra riflessione è Clemente Rebora, uno degli autori più importanti del secolo scorso.
Rebora nacque nel 1885 a Milano dove si laureò in lettere. Prese parte alla prima Guerra Mondiale e, nel 1915, fu congedato per la fragilità del suo equilibrio nervoso (un dato che lo accomuna ad un altro grande della letteratura italiana, Giuseppe Ungaretti, anche lui traumatizzato dalla crudele esperienza della guerra). Al termine del conflitto, insegnò nelle scuole secondarie. Tormentato da un ansioso fermento morale, ebbe una crisi religiosa che lo portò ad entrare nella famiglia dei rosminiani di Domodossola dove, nel 1936, pronunciò i voti perpetui. Morì a Stresa nel 1957.
Proteso in una tensione lirica densa di implicazioni etiche e di aspirazioni religiose, Rebora fu poeta espressionista, volto a privilegiare il lato emotivo delle cose rispetto a quello oggettivamente percepibile. Il suo mondo personalissimo trova nella poesia piena espressione, trasfigurando le esperienze di vita in accenti di commossa meditazione.
Il suo capolavoro s’intitola Frammenti lirici: l’avventura esistenziale di un giovane che vuole misurarsi con il mondo degli affetti, delle idee, delle parole, per tentare di arrivare ad una verità percepibile ma non sempre rivelabile: “Qui nasce, qui muore il mio canto: / e parrà forse vano / accordo solitario; / ma tu che ascolti, rècalo / al tuo bene e al tuo male: / e non ti sarà oscuro”.
Dai Frammenti lirici pubblichiamo tre composizioni di alto livello poetico, caratterizzate da un attento studio del linguaggio. Sono versi talora ermetici, di non facile lettura, che impongono, come molte poesie di Rebora, una meditazione dei significati, un impegno intellettuale atto a percepire i sottili e profondi termini della sua tormentata confessione.
La prima poesia, O carro vuoto sul binario morto, si basa su una efficace allegoria: la vita è come un carro merci su un binario morto, è mossa da urti, spinte, ed un vagone tira l’altro. Il destino dell’uomo compie un percorso imprevedibile: vagone tra i vagoni, si muove costretto da forze esterne “nel labirinto dei giorni / nel bivio delle stagioni”. Ma in questa noia di vivere, in questa oppressione, si affaccia una speranza: la possibilità, attraverso l’amore, di proiettarsi oltre i limiti terreni.
O CARRO VUOTO SUL BINARIO MORTO
O carro vuoto sul binario morto,
ecco per te la merce rude d’urti
e tonfi. Gravido ora pesi
sui telai tesi;
ma nei rantoli gonfi
si crolla fumida e viene
annusando con fascino orribile
la macchina ad aggiogarti.
Via dal tuo spazio assorto
all’aspro rullare d’acciaio
al trabalzante stridere dei freni,
incatenato nel gregge
per l’immutabile legge
del continuo aperto cammino:
e trascinato tramandi
e irrigidito rattieni
le chiuse forze inespresse
su ruote vicine e rotaie
incongiungibili e oppresse,
sotto il cielo che balzàno
nel labirinto dei giorni
nel bivio delle stagioni
contro la noia sguinzaglia l’eterno,
verso l’amore pertugia l’esteso,
e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe
mentre la terra chiede il suo verbo
e appassionata nel volere acerbo
paga col sangue, sola, la sua fede.
*
La seconda poesia, L’ora intima, si colora degli orizzonti della fede come atto di consapevolezza del destino del mondo. L’immagine è quella suggestiva di un lago all’imbrunire, quando sovvengono pensieri e ricordi e, nel segreto del silenzio, è possibile cogliere un “palpito sopito”. Nella meditazione raccolta di quell’ora, s’intuiscono grandi verità. Sul male trionferà il bene: una certezza che nasce dal profondo e che conforta nell’ora triste del tramonto. L’intimo raccoglimento rivela un immancabile approdo in Dio.
L’ORA INTIMA
Respira il lago un palpito sopito
e dàn le stelle battiti di ciglia
divini; appare il mito
dei monti limpido, e origlia.
Per ogni seno l’ora intima scende
dalla campana: e silenzio indi vive,
ogni cosa s’intende
tra foci errando e sorgive.
Sopra gli uomini, in vere leggi pure,
accomuna il mistero della sorte
allegrezze e sciagure:
del male è il bene più forte.
*
La terza ed ultima poesia, Primavera (di cui pubblichiamo un estratto), poggia su immagini aspre, al di là d’ogni retorica. La primavera terrena, che dovrebbe rappresentare il senso d’una rigogliosa rinascenza, è invece priva di vitalità, come una pietra sul fondo melmoso di uno stagno: “l’anima giace pietra al fondo / d’una gora”. Il pensiero non spazia; si chiude, suo malgrado, in piccoli problemi, rinunciando all’esplorazione della verità. Una dolente meditazione sui contrasti dell’esistenza; una coraggiosa denuncia delle falsificazioni e delle mistificazioni che ci impediscono di vivere una vera primavera dello spirito.
PRIMAVERA
È primavera, questo accasciamento
nell’ebete riflesso
d’un caldo umido vento
che monotono incrina
la crosta cittadina
e suono fesso rende?
Forse altrove sei bella, o primavera:
non qui, dove uno sdraia
passi d’argilla e per le reni vuoto
scivola il senso e gonfia la ventraia,
mentre l’anima giace pietra al fondo
d’una gora, e si contrae
l’idea nel tempo che vien già divelto
con nausea intorno alle cose.
Tu, mano aperta che inseguivi il mondo
questo hai ghermito; e primavera in festa
il riposo ora porge e l’omaggio.
Eppur, la fede e il responso tentai;
preda tutto dei casi, nel viaggio
della turba pilotai;
e con rimorso mi largivo e breve
l’ozio che addòlcia
in cima al sentimento i vani sogni:
non certo i vostri, o primavera sciocca,
o lasciva città senza amore!
Ma che giovò, se l’aria mi fu tolta,
se ogni ora parve un ripiego di fretta,
se quasi scheggia puntuta
mi scardassò la vita;
se, primavera, il mio cuor generoso
soffocasti di spasimi sordi
in uno scuoter di sonno che crolla
qui dove tutto m’offende
con vergogna, e non trovo
un abisso profondo per gettarmi?
Tu mi gridasti all’inutile forza
dell’anima che pensa,
all’inezia noiosa di chi pena:
e ridevi nei tuoi rutti sozza.
***
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