Sono parole durissime quelle Francesco pronuncia davanti ai pellegrini salvadoregni venuti da El Salvador a Roma in segno di ringraziamento per la beatificazione di mons. Oscar Romero. Proprio ricordando la figura dell’arcivescovo ucciso in odium fidei il 24 marzo del 1980 e proclamato Beato lo scorso 23 maggio, il Papa ha detto: “Il martirio di monsignor Romero non fu solo nel momento della sua morte: iniziò prima, ma iniziò con le sofferenze per le persecuzioni precedenti alla sua morte e continuò anche posteriormente, perché non bastava che fosse morto: fu diffamato, calunniato, infangato”. “Il suo martirio – ha aggiunto il Pontefice – continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacredozio e nell’episcopato… Solo Dio sa! Solo Dio sa la storia delle persone. E quante volte alle persone che hanno già dato la propria vita, che sono morte si continua a lapidarle con la pietra più dura che esiste nel mondo: la lingua”.
Il riferimento, neanche troppo implicito del Papa, è alle tante calunnie che colpirono il presule e che frenarono la sua causa di beatificazione e la dilatarono per oltre 30 anni, nonostante ci fosse un popolo che già pochi attimi dopo il suo assassinio, avvenuto mentre si trovava sul pulpito per mano di un killer degli squadroni della morte, inneggiava alla santità dell’arcivescovo. Erano tanti i ‘nemici’ di mons. Romero, all’interno della destra politica, ovvero i gruppi paramilitari che collaboravano con l’esercito che mal vedevano il suo impegno per i diritti dei poveri e degli oppressi, e la destra ecclesiastica, rappresentata in particolare dal nunzio e dal cardinale guatemalteco Casariego che inviavano a Roma velenosi rapporti in cui lo accusavano di posizioni troppo ‘di sinistra’ e vicine alla teologia della liberazione.
Romero subì pesanti pressioni nei tre anni di episcopato, tra cui una “visita apostolica” guidata da monsignor Antonio Quarracino, poi arcivescovo di Buenos Aires e predecessore di Jorge Mario Bergoglio, che diede un parere molto negativo sulla sua condotta consigliando di affiancargli un amministratore apostolico sede plena,. In altre parole, di esautorarlo di ogni potere. E tutto questo ai tempi di Paolo VI. Ma le diffamazioni proseguirono anche sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, quando gli stretti collaboratori del Pontefice polacco, alla morte di Romero, suggerirono di non recarsi in El Salvador a presiedere i funerali. Wojtyla poi lo riabilitò commemorandolo come martire durante il Giubileo del 2000. Bergoglio infine diede la spinta giusta per la sua elevazione agli onori degli altari, in una cerimonia, presieduta dal card. Amato, che vide la partecipazione di oltre 250mila fedeli.
Un segno chiaro dell’amore che il popolo riservava a questo “pastore buono, vicino a Dio e ai suoi fratelli”. Egli fu in vero testimone del Vangelo che non ha rinunciato alla sua opera di apostolato pur consapevole che questo lo avrebbe portato al martirio. “Dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore…”, ha detto Papa Francesco, ricordando le stesse parole del presule salvadoregno, “dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere”.
Anche oggi il mondo gronda del sangue di un numero enorme di cristiani martiri, ma – ha detto il Pontefice – abbiamo la “speranza certa che porterà frutti di un abbondante raccolto di santità, di giustizia”. Perché il martire – ha evidenziato il Papa – non è infatti una “bella immagine”, relegata nel passato o che adorna le nostre chiese: “il martire è un fratello, una sorella che continua ad accompagnarci nel mistero della comunione dei Santi e che, unito a Cristo, non trascura il nostro pellegrinaggio terreno, le nostre sofferenze e agonie”.
El Salvador ne ha conosciuto tanti di questi martiri: oltre a Romero, anche padre Rutilio Grande (di cui la delegazione di oggi ha chiesto un’accelerazione del processo di beatificazione) e numerosi altri testimoni che costituiscono “un tesoro” e “una fondata speranza per la Chiesa e per la società salvadoregna”. Mons. Romero, in particolare, costituisce per la sua nazione “uno stimolo per un rinnovato annuncio del Vangelo di Gesù Cristo”. “Con fondata speranza – ha ricordato Francesco – egli desiderava vedere l’arrivo del felice momento della scomparsa da El Salvador della terribile tragedia della sofferenza di tanti nostri fratelli a causa dell’odio, della violenza e dell’ingiustizia”.
“Che il Signore – è stato quindi l’auspicio del Santo Padre – con una pioggia di misericordia e di bontà, con un torrente di grazie, converta tutti i cuori”, in vista anche del Giubileo straordinario della Misericordia. E che El Salvador “diventi un Paese in cui ognuno si senta redento e fratello senza differenze”.