Il dramma dei fucilati durante la Prima Guerra Mondiale non appartiene soltanto all’Italia in generale ma riguarda anche la Chiesa ed in particolare l’Ordinariato Militare. Lo ha dichiarato l’Ordinario Militare per l’Italia, monsignor Santo Marcianò, durante il suo intervento al convegno Disertati. Perdono e riabilitazione per i militari fucilati, conclusosi ieri a Roma presso la sala capitolare della chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli.
“Per me, vescovo, è un dovere e un dono conoscere quanto accaduto al popolo che sono chiamato a guidare, come qualunque pastore dovrebbe conoscere la storia della propria città, anche nei suoi risvolti più drammatici e critici”, ha dichiarato monsignor Marcianò.
Trattare l’argomento dei disertori, ha aggiunto il presule, è qualcosa di simile a “quando, da adulti, proviamo a rileggere alcune storie o vicende reali che ci hanno accompagnato da bambini: riviviamo antiche paure e sogni, prendendo atto di quanto abbiano, malgrado tutto, contribuito a formare la nostra identità personale”; lo facciamo, tuttavia, “con un altro sguardo, con un’altra ottica”, ovvero “l’ottica della pace”.
Oggi, infatti, il contesto in cui i militari italiani operano è, “più di altri, a servizio concreto dei valori di umanità, accoglienza, rispetto e cura, via privilegiata per costruire la pace”, ha osservato l’Ordinario Militare, citando quale esempio emblematico “il soccorso e l’accoglienza dei profughi e degli stranieri” da loro portato avanti.
Secondo Marcianò, la generazione di militari che combatté la Prima Guerra Mondiale fu “consapevole che servire e difendere la Patria significa servire e difendere non i confini ma le persone umane”, ovvero “quel «popolo» in cui tutti ci riconosciamo e la cui identità non si disegna nel contrasto ma nella complementarietà e fraternità, con i propri connazionali e con gli altri popoli”.
La prospettiva attuale si caratterizza per una “mutata sensibilità alla guerra” e per un “desiderio di percorrere le vie del dialogo” e “della diplomazia”: ciononostante il mondo vive una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, ulteriormente incrudelita dalle immagini di “cristiani decapitati o arsi vivi nelle Chiese, reporter e stranieri giustiziati, donne e bambini vittime di attentati massivi”.
Ferme restando le differenze tra il contesto odierno e quello di un secolo fa, una possibile riabilitazione dei militari di ieri “ingiustamente condannati con sentenze sbrigative o a scopo puramente dimostrativo”, potrebbe rappresentare “un ulteriore segno di rifiuto della guerra e del modo di esercitare, in essa, una giustizia sommaria”.
A ciò fa da contraltare la giustizia intesa dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, che prescrive all’autorità di comminare pene “per tutelare il bene comune”, permettendo la “correzione” e l’“espiazione”.
Nel contempo sta avanzando “nella coscienza dei singoli e dei popoli, il rifiuto sempre più netto della «pena di morte»”, avallato anche dal magistero petrino: San Giovanni Paolo II, una ventina d’anni fa, riconobbe come “i casi che richiederebbero la pena capitale siano «ormai… praticamente inesistenti» (cfr Evangelium Vitae)”, mentre papa Francesco ha recentemente auspicato “«l’abolizione totale della pena di morte» dinanzi al Congresso degli Stati Uniti d’America”.
Anche questo crescente rifiuto della pena capitale, conferisce “un’ulteriore spinta ad approfondire la questione del processo di riabilitazione dei fucilati”, obbligando tutti, al tempo stesso “a un impegno più fattivo per promuovere una cultura della vita più ampia, che non tolleri scarti di nessun genere, anche a livello socio-politico”.
Infatti, ha sottolineato monsignor Marcianò, “se è preziosa la vita degli assassini condannati a morte” e quella degli “eliminati in guerra”, lo è altrettanto “la vita innocente di poveri ed esclusi, stranieri e anziani, bambini nel grembo materno e malati che soffrono”.
Per tutti i motivi elencati, sarebbe opportuno rileggere la storia dei disertori “che subirono in guerra pene più severe per i reati più comuni: indisciplina o automutilazione, libertà di parola o scrittura per lettera, resa o sbandamento, tradimento o quella diserzione per decretare la quale sembra bastassero appena 24 ore di ritardo”.
Ciò ci obbliga a “sentire appartenente al nostro popolo chi, in guerra, abbia obbedito combattendo ma anche chi, disertando, abbia inteso dire no alla guerra: è una via per essere e diventare popolo, riscoprendo i legami di fraternità che sono il germe della pace”, ha affermato l’Ordinario Militare, auspicando in conclusione che l’imminente Giubileo permetta che “questo sguardo di misericordia si ampli sempre più, fino a diventare apertura a una giustizia che includa possibilità universale di salvezza, per i condannati come pure per i carnefici, di ieri e di oggi”.