Si presentano tutti di buon umore i relatori del briefing di oggi sui lavori del Sinodo. Inizia padre Lombardi scherzando sul fatto che, finita l’assemblea, sentirà la mancanza dei giornalisti che seguono quotidianamente le conferenze in Sala Stampa vaticana. Poi mons. Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme, ironizza sul fatto che, all’inizio di questa terza settimana, “un po’ di stanchezza si fa sentire”. E gli fa eco l’australiano Mark Benedict Coleridge, arcivescovo di Brisbane, che dice: “Alcune persone del mio paese pensano che si viene a Roma per fare vacanza, invece stiamo lavorando. E parecchio..”. Conclude in bellezza, infine, mons. Enrico Solmi, vescovo di Parma, che si presenta come il “vescovo del parmigiano e del prosciutto”, suscitando le risate collettive.
Il tono rilassato è dato evidentemente dal clima in Aula che, a pochi giorni dalla conclusione, affermano i presuli, sembra aver raggiunto un buon equilibrio, anche in vista della redazione del documento finale che verrà presentato al Papa. A contribuire all’atmosfera serena anche la metodologia scelta da Francesco – meno plenarie, e maggiore spazio ai Circoli minori – criticata dagli esterni, ma apprezzata dagli interni, in quanto occasione di libero scambio e dialogo nel segno di quella parrèsia tanto invocata dal Pontefice. Proprio oggi pomeriggio i 13 gruppi linguistici torneranno al lavoro sulla terza parte dell’Instrumentum laboris.
“Il Sinodo è un segno bellissimo di collegialità, io la sento in modo più forte. Il Sinodo ci unisce”, afferma mons. Twal, ribadendo come sia “normale che ci siano diversità di opinioni”, dovuti soprattutto alla provenienza da contesti differenti: politico, geografici, economici. “Le sfide non sono le stesse per tutti, quindi non tutti sono d’accordo”. Tuttavia c’è un punto di comunanza: “Tutti vogliamo il bene della famiglia. Non c’è stato finora un aspetto della famiglia, in tutto il mondo, che non sia stato toccato, trattato, cercando il meglio per le nostre famiglie, intendendo la famiglia umana, la famiglia religiosa e la famiglia come Chiesa totale”.
D’accordo Coleridge che descrive queste prime due settimane di assise come un “viaggio affascinante”, dove abbiamo “chiarito tanti punti” anche grazie al “metodo nuovo” che ha permesso un lavoro “interessante, proficuo e sfidante”. “Si sta passando – dice il presule – da un semplice evento ad un vero e proprio processo di fermentazione”. Riguardo al documento finale l’arcivescovo australiano esprime invece la speranza che, per quanto “non facile da elaborare”, possa essere “un buon punto di partenza”: “Le sfide hanno creato confusione, ma sono convinto che qualcosa di buono potrà emergere”. Certo è che quanto emergerà “non finirà domenica 25 ottobre”, ma accompagnerà il lavoro pastorale di tutti i Padri nelle proprie diocesi di provenienza.
L’importante – spiega mons. Solmi, fino a poco tempo fa responsabile della Commissione per la Pastorale della famiglia presso la CEI – è che questo non sia “un Sinodo ‘cosmetico’, ma un Sinodo che sappia incidere sulla vita della Chiesa, rimettendo la famiglia al posto che le spetta nella Chiesa, in modo che questo possa diventare un segnale forte per la nostra società e per i nostri Paesi che spesso, anzi sistematicamente dimenticano la famiglia”.
Anche il vescovo di Parma dice di aver “avvertito realmente in questi giorni il senso della cattolicità della Chiesa”: “Venire a Roma ed incontrare il mondo, avere una visione meno occidentale, meno chiusa, del matrimonio e della famiglia, perché nell’Aula del Sinodo arrivano tutte le famiglie del mondo, con le loro particolarità, le loro tematiche, i loro problemi, ed a volte anche con l’insieme di valori e di attenzioni spesso dimenticate nel nostro mondo occidentale”.
Il rischio ‘occidentalizzazione’ – denunciato da diversi Padri, soprattutto quelli africani – è comunque sempre presente a causa dell’eccessivo accentramento su casi specifici. Come quello dei sacramenti ai divorziati risposati, tema dominante nell’assemblea ordinaria e straordinaria. Anche oggi la questione è stata risollevata durante il briefing, in relazione al “commovente” – a parer di molti – racconto del bambino che, durante la prima Comunione, ha spezzato l’Ostia in due parti per donarle ai propri genitori divorziati risposati. Racconto addotto in un primo momento al parroco di Trieste, don Roberto Rosa, che si pensava lo avesse comunicato nei mesi scorsi al Papa in una lettera (cosa che, secondo alcuni maliziosi blog e siti conservatori, gli avrebbe fatto guadagnare la nomina di Padre sinodale); ma poi ‘confessato’ a Tv2000 da mons. Alonso Gerardo Garza, della diocesi messicana di Piedras Negras.
“Siamo stati toccati da questo gesto, ci fa pensare che il dramma tocca tutti. Non siamo indifferenti a tali situazioni…”, dice il patriarca Twal. E Solmi aggiunge: “Sicuramente ha scosso l’assemblea”, perché “questo bambino ci ha parlato ci ha mostrato una vita vera”. “Mi ha arricchito dal punto di vista delle mie posizioni, ma non mi ha sconvolto perché mi ha fatto venire in mente altre situazioni”, prosegue il vescovo ricordando la storia di una donna della sua diocesi, madre di 3 bambini, dei quali uno adottato con grossi problemi fisici, che incontrava altre mamme divorziate risposate “mettendosi in grande disponibilità” nei loro confronti per creare quella “comunione”, che trova sicuramente il suo “apice” nell’Eucarestia, ma che nella Chiesa “è presente in tanti modi e forme”.
Da parte sua mons. Coleridge, spiegando di non aver ascoltato l’intervento perché impegnato fuori dall’Aula, afferma: “Sicuramente mi sarei commosso per questa storia. Ci dice che dobbiamo stare in contatto con la realtà, radicarci nella realtà” e “non ragionare in termini astratti ma concreti”. Perciò, “dobbiamo lavorare sodo, con coerenza e onestà. Questi episodi ci toccano profondamente, ma non so, anzi sono sicuro che non ci sarà una modifica della situazione”.
Sul percorso penitenziale proposto già lo scorso anno dal card. Kasper, i tre Padri spiegano che, in alcuni casi, ad esempio alla presenza di figli, è possibile un “percorso di discernimento” attraverso il quale la Chiesa possa “accompagnare” le persone che hanno vissuto un fallimento matrimoniale e “dialogare” con esse. Perché magari proprio da questo dialogo – afferma Coleridge – “può emergere un pentimento, un senso di colpa” e arrivare dunque ad un cammino di “conversione” e “riconciliazione”.
In ogni caso, precisa Twal, “siamo in un campo, non dico minato, ma molto delicato”, per cui non si può “generalizzare”. “Nel mio gruppo di lavoro – racconta – non si è mai posta la questione in questi termini: chi è pro o contro la comunione ai divorziati risposati. Bisogna vedere caso per caso i motivi che hanno condotto la famiglia a questa separazione, voluta o subita. Il nostro Circolo, oltre a queste situazioni, ha parlato anche di milioni di altre famiglie che hanno le loro sofferenze, quelle dei rifugiati, vittime di guerra, vittime di violenza”.
“Non tutti i casi sono gli stessi – fa eco l’arcivescovo di Brisbane -. Non si possono avere visioni troppo ‘manichee’, tutto o niente, perché la realtà dell’esperienza umana è molto più sfumata e vasta. Si parla comunque di situazione di peccato – sottolinea – ma dire che ogni seconda unione è un adulterio è una generalizzazione troppo grossa. Ad esempio, un matrimonio stabile con bambini non è la stessa cosa di una coppia che si vede in un alberghetto di provincia nei weekend e tiene la relazione segreta”. Pertanto è fondamentale “avere discernimento pastorale, valutare queste storie, non solo andare avanti e mostrare la dottrina della chiesa”. Ci sono, infatti, “tante persone in situazioni irregolari ma ogni storia è div
ersa”; la cosa più “preoccupante” è “che queste si sentono messe da parte dalla Chiesa e ciò le porta ad isolarsi”.
Cosa deciderà quindi il Sinodo in merito? “Deciderà il Papa”, ribatte l’arcivescovo – che dichiara pure di star pensando a un Sinodo nazionale – e spiega che sicuramente è “calata” tra i Padri l’idea che i risposati debbano essere riammessi alla comunione, ma in Aula c’è qualcuno che ha fatto appello al Papa perché compia un “gesto eccezionale di misericordia” durante il Giubileo. Ciò non nuocerà alla dottrina della Chiesa verso cui “non ci saranno modifiche”. Tuttavia, speranza di mons. Coleridge, condivisa dai ‘colleghi’, è che da questo Sinodo “ci sia un movimento verso un nuovo, davvero nuovo, approccio pastorale”, che comporti anche “un nuovo linguaggio”. L’importante è che sia “qualcosa di vero, non solo un cambiamento cosmetico superficiale”.