Motu proprio riforma matrimoniale: "Un frutto del cammino sinodale"

Intervista al decano della Rota romana, mons. Pio Vito Pinto, sul nuovo processo di ‘snellimento’ introdotto da Papa Francesco

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La rifondazione del processo matrimoniale con i Motu propri dello scorso 8 settembre, il rapporto con i due Sinodi su matrimonio e famiglia, lo snellimento e la semplificazione auspicata dai vescovi di tutto il mondo, la centralità del vescovo giudice, la rivalutazione del diritto del metropolita: sono questi i temi affrontati dal decano della Rota romana, mons. Pio Vito Pinto, un mese dopo la promulgazione dei due documenti che entreranno in vigore l’8 dicembre, inizio del Giubileo della misericordia, in un’intervista concessa a Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano.

Si tratta di una profonda riforma, che già in questi primi giorni dei lavori sinodali è stata salutata con favore — sottolinea il prelato — “come una legge chiara, disposta per rispondere a bisogni urgenti dei fedeli e dalla quale il Papa si aspetta che venga speranza, non paure”. Secondo Pinto, i due documenti papali sono “frutto del cammino sinodale ed espressione autentica della collegialità episcopale”, emersa dai questionari inviati a tutte le Conferenze Episcopali.

Proprio da questi è risultata “un’amplissima convergenza sull’esigenza di snellire e semplificare i processi matrimoniali”, che nel concreto significa riprendere le disposizioni di Pio X all’inizio del ‘900, con cui il Pontefice voleva “restituire in pieno l’esercizio della potestà giudiziale al vescovo diocesano e al metropolita, cioè all’arcivescovo capo di una provincia ecclesiastica”.

“In questo modo Papa Francesco vuole una maggiore prossimità delle strutture della Chiesa ai fedeli”, ribadisce il vescovo, spiegando che tale riforma affida a ogni vescovo diocesano due tipi di processo: quello più breve e quello ordinario”. Nel primo caso “è il vescovo a giudicare personalmente, se vi è piena evidenza delle prove di nullità; in questo caso, dopo una breve istruttoria, assume la certezza morale e firma la sentenza. Non è tuttavia il vescovo a istruire le cause, ma i suoi collaboratori: il vicario giudiziale o altro giudice istruttore. Se invece non vi è immediata evidenza delle prove, il caso viene inviato al processo ordinario”.

“Per questo – afferma mons. Pinto – ogni vescovo deve costituire un tribunale diocesano per le nullità matrimoniali: collegiale, ma in caso di impossibilità anche con un giudice unico. In concreto, ogni richiesta di nullità va indirizzata al vicario giudiziale diocesano, che decide in quale dei due tipi di processo deve essere risolto il caso. Il processo breve prevede la possibile presenza delle parti, a differenza del processo ordinario, e deve risolversi in un arco di tempo che può oscillare da due settimane a un mese”.

A detta del Decano della Rota romana, sono aspetti che “mostrano la grande novità di questo tipo di procedimento, non a caso affidato dal Successore di Pietro al vescovo in persona, perché questi non cada in abusi a danno della verità del vincolo matrimoniale: abusando, infatti, il vescovo tradirebbe non il Papa, ma Cristo stesso. E per entrambi i processi la gratuità, fortemente auspicata dai Motu propri, mostrerà con tutta evidenza il loro spirito pastorale, volto unicamente al bene dei fedeli. E questi comprendono immediatamente lo spirito di povertà che deve ispirare la Chiesa”.

Il nuovo regime giuridico – aggiunge inoltre il presule – entrerà in vigore dall’8 dicembre prossimo e non avrà effetti retroattivi. Tuttavia, nel caso di un processo già in corso e la cui sentenza di nullità sia data e notificata successivamente all’8 dicembre, si applicheranno gli effetti della riforma e la sentenza affermativa sarà quella definitiva. Circa i tribunali regionali, il prelato informa che tale legge “rifonda e riordina in pieno, ex integro, il processo matrimoniale, dando al vescovo il diritto di costituire il suo tribunale diocesano. Cade dunque la legge che prevede i tribunali regionali, esistenti del resto soltanto in alcuni Paesi”.

Quindi, “all’interno delle singole province ecclesiastiche, i vescovi avranno invece facoltà di istituire, se lo riterranno utile, un tribunale interdiocesano con appello al tribunale del metropolita, fatta salva la possibilità di creare, a norma del diritto, tribunali interdiocesani di più province”. In alcune circostanze particolari il vescovo, “come pastore e giudice del suo gregge”, potrebbe consegnare personalmente la sentenza di nullità alle parti interessate. 2Sarebbe un segno di prossimità evangelica ai fedeli, in molti casi feriti da anni di sofferenza”, commenta Pinto, “la Chiesa infatti è mistero e il vescovo è colui che accompagna, quasi conduce per mano i fedeli: in questo senso è mistagogo, come furono Basilio e Giovanni Crisostomo in Oriente, Ambrogio e Agostino in Occidente”.

[S.C.]

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ZENIT Staff

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