Riportiamo di seguito il testo integrale dell’intervento del cardinale vicario della diocesi di Roma dopo il tragico episodio accaduto nella zona di Battistini, dove mercoledì scorso un’auto guidata da tre rom minorenni in fuga dalla polizia ha seminato terrore, uccidendo una donna filippina di 44 anni e ferendo altre otto persone. L’articolo sarà pubblicato domani, domenica 31 maggio 2015, sul settimanale diocesano Roma Sette in edicola con il quotidiano Avvenire.
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Il tragico episodio dello scorso mercoledì, in via Battistini, nel quale ha perso la vita una donna filippina e sono rimaste ferite altre otto persone, mi ha suscitato grande dolore e comprendo le giuste reazioni e i commenti molto severi, che ripropongono sulla “questione Rom” giudizi e opinioni diverse ma non sempre obiettive. Inaccettabili comunque e da condannare severamente sono gli inviti a vendicarsi e le sconsiderate e gravi dichiarazioni di alcuni politici.
Intanto si dovrebbe partire col ricordare che, in un mondo che va sempre più globalizzandosi (Roma, come tutte le altre capitali del mondo, da anni è ormai una città multietnica), i Rom sono qui da generazioni e la gran parte sono giovani famiglie che con i loro figli sono nati a Roma. È necessario allora far crescere, nel rispetto della legalità, la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione sociale e non quella del rifiuto e del disprezzo, sul presupposto da non dimenticare mai che queste persone sono uomini e donne come tutti, nostri fratelli e sorelle, spesso già provati da sofferenze, privazioni e paure. Nessuno si muoverebbe dalla propria terra di origine se vivesse una vita serena e tranquilla.
In secondo luogo i campi di accoglienza, comprensibili come soluzioni di emergenza e temporanee, non si giustificano se sono diventati di fatto definitivi. Questo è il punto veramente dolente della questione. Perché si tratta di accampamenti dove il disagio, il malessere, la lotta tra etnie diverse, l’emarginazione sociale ghettizzano le persone, la gran parte delle quali soffrono, subiscono e si adattano, non potendo e spesso non sapendo fare altro, alla sopravvivenza e non di rado all’illegalità e alla devianza.
Ho visitato tutti i campi, conosco personalmente tante famiglie Rom, le seguo e con loro perseguo strade per superare la marginalità e sperimento con dolore quanta prevenzione c’è verso queste persone che vorrebbero uscire da questa condizione, avere un lavoro, affittare una casa e vivere dignitosamente senza sottoporsi all’umiliazione di chiedere l’elemosina o di darsi ad altri espedienti per sopravvivere. L’Unione Europea ha dato da alcuni anni indicazioni ai Governi nazionali per l’inclusione sociale di Rom, Sinti e Camminanti, indicazioni volte al superamento degli accampamenti, ma purtroppo da noi non si è fatto quasi nulla. Comprendo le difficoltà economiche, ma ci sono ancora troppi pregiudizi.
Mi domando: i fondi usati per mantenere i campi non potrebbero essere meglio utilizzati, almeno in parte, per progetti di inclusione sociale che facciano superare per sempre la marginalizzazione? Ricordate il rogo che, alcuni anni or sono, arse vivi quattro fratellini nella loro baracca? Nella commozione del momento si disse che sarebbero partiti subito progetti che, nel giro di alcuni anni, avrebbero superato definitivamente i campi.
Eppure se tutti i Rom presenti in città non superano le 8.000 unità, o forse meno, perché nel frattempo un po’ di famiglie sono ritornate nei Paesi di origine dei loro nonni, credo che qualche scelta oculata possa essere fatta. Smantellare i campi va bene, ma la soluzione non è quella di rinchiudere le famiglie sfrattate in altre strutture emarginanti.
Il Vicariato, attraverso la Caritas diocesana, ha elaborato progetti di inclusione sociale che sono stati messi a disposizione delle istituzioni competenti e prevedono sportelli per la regolarizzazione dei documenti, lo sviluppo della scolarizzazione dei bambini e dei ragazzi, centri di formazione per donne e uomini in vista dell’inserimento nel mercato del lavoro, l’inserimento nelle graduatorie per l’assegnazione delle case popolari, naturalmente non attraverso vie preferenziali ma alla pari degli altri cittadini. Purtroppo siamo ancora in attesa di essere chiamati.
A Roma abbiamo otto campi cosiddetti attrezzati, dieci sono quelli riconosciuti o tollerati e 500 persone circa sono presenti in campi abusivi. Un numero non eccessivo per promuovere gradualmente – sottolineo “gradualmente”, perché so bene che il governo della città è cosa complessa da far tremare i polsi – politiche sagge ed efficaci di intervento su queste sacche di emarginazione; significherebbe sviluppare processi sociali virtuosi, educativi e di responsabilizzazione delle persone, che gioverebbero a tutti e alla pace sociale.
Sono vicino alla famiglia della vittima, prego per la signora Corazon ed auguro ai feriti una rapida guarigione. Fatti come quello accaduto sono da condannare severamente e i responsabili da consegnare alla giustizia, ma se non si interviene sulle cause del degrado e del disagio sociale rischiamo di ritrovarci ancora – Dio non voglia! – a piangere altri morti.