«Sempre, di fronte a un’immagine, ci troviamo di fronte al tempo»[1]. Con tale frase il filosofo e storico dell’arte Didi-Huberman esordisce nel celebre saggio Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, testo incentrato sull’analisi di quel cortocircuito, alle volte fecondo per alcune ricerche artistiche, che nasce dalla proiezione sul passato di categorie che non gli appartengono con un relativo effetto finale di straniamento e riconfigurazione della personale percezione delle cose.
L’arte post-moderna, in quanto arte di una cultura liquida e priva di centro, ha ricercato un’immagine-matrice che fornisse una certa carica auratica alle proprie proiezioni ma l’ha smembrata e disattesa attraverso una certa lettura antropologica, che privilegia una vaga idea di memoria annullando però il pensiero della tradizione. Alcune impressioni le ha desunte anche dalla religione cristiana, cercando di farsi avallare dal principio di autorità dell’arte sacra antica e moderna; ma, nell’abbandono e nel rifiuto dell’oggetto artistico tradizionale, ha migrato verso una soggettiva visione religiosa di stampo gnostico del tutto lontana dai principi fondamentali di universalità, bellezza, figuratività e narratività[2].
L’Arte Povera, in particolare, distaccandosi dalla linea analitica e di ricerca delle avanguardie, ha attuato una riduzione della complessità di visione per una critica, solo apparente, del sistema. Si era ripercorsa la vecchia strada surrealista dalla quale gli artisti del movimento avevano mutuato il principio del “binomio fantastico”: «Nel 1967 il lancio dell’Arte Povera sancì che l’immagine internazionale dell’arte italiana dovesse essere affidata ai valori della povertà e della fantasia»[3].
In assenza di definizioni – «piuttosto che una definizione l’Arte povera era ed è un modo di essere e di porsi»[4] – l’operazione compiuta dagli artisti è un’uscita dalla Storia e l’attuazione di forme estetiche di guerriglia, ovvero di decostruzione. Il recente adeguamento liturgico della Cattedrale di Reggio Emilia -l’altare di Claudio Parmiggiani, la cattedra episcopale di Jannis Kounellis, la scala che conduce all’ambone e il leggio di Hidetoshi Nagasawa, il porta-cero di Ettore Spalletti- ha suscitato non poche polemiche per la frattura che veniva a crearsi con l’ambiente architettonico e artistico preesistente. In particolare la cattedra realizzata da Jannis Kounellis, uno dei massimi esponenti del movimento sopracitato, da poco rimossa, era completamente realizzata in legno grezzo, non lavorato, e in metallo e, collocata in navata, non rispondeva interamente alla dignità della sua funzione, non essendo pensata come polo “regale” bensì come luogo del tempo che passa e che consuma. A riguardo significativa anche la scelta di utilizzare un legno “storico”, ovvero delle antiche travi della chiesa che, come primo riferimento, conducevano alle travi della Croce.
Nella Basilica di Maria Santissima della Madia a Monopoli, nella prima cappella della navata minore sulla destra dell’ingresso, vi è la cosiddetta Cappella delle Travi. In questo luogo, all’interno di un enorme armadio a muro, sono esposte alla venerazione le travi facenti parte della zattera che, nel 1117, miracolosamente aveva condotto nella città pugliese l’icona della Madonna Odegitria, da allora patrona e protettrice di Monopoli e nucleo ideale e propulsore dell’attuale chiesa. Colpisce di tale Cappella, in assenza di ulteriori immagini sacre, per via di quel processo anacronistico di euristica della rappresentatività, l’aspetto di installazione d’Arte Povera come fosse una silenziosa ed enigmatica superficie significante ma il cui senso ci sfugge.
Solo conoscendo la storia dell’icona accostiamo quelle antiche travi all’evento miracoloso che ha conferito alla loro sostanza lo status di reliquie. In tal caso la potenza visiva dell’immagine è data dalla sacralità dell’oggetto il quale è entrato in contatto con un oggetto ancora più sacro, per giunta per vie miracolose, ed è quindi capace, per la sua essenza, di reggere da solo, con la sua materia spoglia e consunta, il ruolo di “figura”. Per quanto riguarda invece l’uso di elementi poveri in un contesto liturgico come può essere quello della Cattedrale di Reggio Emilia il processo è inverso. Non fruiamo dell’elemento trasfigurato in spoglia bensì assistiamo ad un’anarchica e arbitraria auto-consacrazione dell’elemento povero che si vuol far passare per segno sacro alterando, in questo caso, l’idea stessa di cattedra che non è più un trono ma semplicemente una seduta. Il “binomio” surrealista è determinato dall’accostamento dei materiali umili con la funzione della cattedra, e la critica allora non è al materiale povero in se stesso bensì a quel tentativo, di carattere antropologico, di rassomigliare il “povero” per veicolare altro.
***
NOTE
[1] G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Torino 2007, p. 11
[2] Cfr. R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Firenze 2012
[3] Sergio Lombardo in P. Ferraris, Psicologia e arte dell’evento: Storia eventualista 1977-2003, Roma 2004, p. 23
[4] G. Celant, Arte Povera, Firenze 2012, p. 21