Il primo impatto con la città di Varsavia ha il sapore del contrasto. Il grigio degli edifici e la larghezza dei viali. E poi il trionfo del verde: prati, alberi, fiori ovunque, fuori e dentro i parchi; aiuole curate fin nei dettagli, in tutti gli accostamenti cromatici possibili. Con Roma, Varsavia condivide i colori simbolo: coccarde, nastri e bandierine giallorosse sono assai frequenti, così come gli stendardi nazionali biancorossi sovente visibili ai balconi dei condomini privati. I polacchi, da un millennio, si contraddistinguono per un patriottismo che non ha mai avuto nulla di nazionalista né tantomeno di imperialista. È un patriottismo legato alle tradizioni, alla fede cattolica che tiene unito il popolo, al senso della famiglia e della comunità. Tra i popoli del centro-nord Europa, i polacchi sono quello che più ama la convivialità e cura la cucina.
Per il popolo polacco, ed in particolare per la sua capitale, la parola chiave sembra essere “destino”. È il destino di un popolo pacifico (ma tutt’altro che debole) per molti secoli pressato dall’aggressività delle nazioni limitrofe: Germania, Russia, Austria in primis, ma anche Svezia e Turchia. In dieci secoli i polacchi hanno resistito a tutto: accerchiati da protestanti ed ortodossi, sono rimasti fedeli alla Chiesa di Roma. Vittime del patto Molotov-Ribbentrop, hanno fatto sopportato 6 anni di occupazione nazista e oltre un quarantennio di regime comunista.
Oggi sono il popolo europeo che più fortemente sta resistendo al secolarismo dilagante.
Ricostruita all’85% dopo il secondo conflitto mondiale, Varsavia può non avere un impatto travolgente sul visitatore, eppure la si congeda con un peculiare sensazione di gratitudine per la sua capacità di resistenza al male di ogni epoca. Varsavia è la città della memoria per eccellenza.
Conservando un piccolo nucleo di storia prenovecentesca nella Città Vecchia, la capitale polacca è destinata a portare per sempre su se stessa le proprie cicatrici e il proprio lutto, a cominciare dai segni dell’oppressione totalitaria: il Palazzo della Cultura, emblema del comunismo, è ancora in piedi, al pari degli spettrali condomini degli anni ’70-’80. Altrettanto intoccabili sono i retaggi dell’olocausto: quel che resta del ghetto ebraico, i luoghi delle rappresaglie naziste, con relative lapidi commemorative.
In tutto il centro sono presenti una quindicina di ‘panchine chopiniane’: sedendovisi sopra, si attiva l’esecuzione di un componimento di Frederick Chopin (1810-1849), musicista che trascorse più di metà della sua vita lontano dalla patria e la cui più profonda motivazione artistica fu proprio la nostalgia per la propria patria.
Varsavia è però la città della memoria anche a motivo dei suoi testimoni della fede: su tutti il beato Jerzy Popieluszko (1947-1984) e il servo di Dio cardinale Stefan Wiszinsky (1901-1981). Quest’ultimo, che fu primate di Polonia e maestro spirituale del futuro papa Karol Wojtyla, subì il “martirio bianco” della prigionia per la sua opposizione al regime comunista. Durante i suoi dieci anni di carcere, tutte le sere un gruppo di fedeli si riuniva davanti all’immagine della Madonna Nera di Czestochowa, fino a quando non avvenne la sua liberazione. La sua tomba, vistosa ma sobria, è custodita nella nuova cattedrale di Varsavia, un moderno edificio in mattoni di relativamente scarsa solennità, quasi a testimoniare la fatica e l’umiltà della ricostruzione.
Da parte sua, padre Jerzy Popieluszko fu assassinato dalla polizia nell’ottobre 1984, al culmine di una fase di durissima repressione, seguita alla legge marziale e all’arresto dei principali dirigenti di Solidarnosc. Tre anni dopo, pregando sulla sua tomba, San Giovanni Paolo II proclamò: “Il suo sangue ha salvato l’Europa”.
Per Varsavia e per la Polonia tutta, l’alba iniziò a sorgere proprio in quegli anni di notte buia. Anni che la città non vuole e non può dimenticare, non perché le sue ferite non guariranno mai, ma perché è importante ricordarsi dell’oppressione e della tribolazione patite per diventare veri testimoni di libertà.