Gli armeni, vittime tra memoria e presente

Mons. Kevork Noradounguian, Rettore del Pontificio Collegio Armeno di Roma, parla del recente assalto nella città di Kassab e delle ripercussioni subite dalla comunità armena nel contesto della guerra in Siria

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Si chiama Kassab: é una piccola città della Siria, sul confine turco, dove da sempre vive una esigua comunità armena. È luogo simbolo di pace e tranquillità, essendo stato escluso da qualunque presenza militare. Una particolarità che ha risparmiato a questa località di rara bellezza le lacerazioni e i disastri che hanno colpito il Paese dall’inizio della crisi. Ma recentemente è accaduto qualcosa, e in un solo giorno tutto è cambiato. Il 24 aprile la Comunità Armena celebra la giornata della memoria del Genocidio del popolo armeno, commesso dal governo turco nel 1915 e mai riconosciuto da Ankara. E proprio oggi sembra che le vittime e i carnefici siano tornati quelli di allora. Ne parliamo con mons. Kevork Noradounguian, siriano di Aleppo, Rettore del Pontificio Collegio Armeno di Roma.

Cosa è accaduto a Kassab?

A Kassab vivono circa 650 famiglie, tutte della comunità armena. Essendo una zona tranquilla, molte famiglie si sono rifugiate lì da parenti e amici. All’alba del 23 marzo, verso le cinque del mattino, gli abitanti e i più giovani, sempre all’erta, hanno sentito il rombo degli aerei militari. Hanno capito che qualcosa stava per accadere. All’improvviso sono giunte dalle montagne le urla e le voci di tanta gente che si riversava nel paese al grido di Allahu Akbar. Hanno dato subito l’allarme ed hanno iniziato a scappare abbandonando tutto, in pigiama, senza documenti, utilizzando tutti i mezzi disponibili. Si sono rifugiati nel convento armeno nella vicina località Baghgiagas, lasciando solo poche persone, soprattutto gli anziani e gli invalidi che non potevano muoversi. A sferrare l’attacco c’erano numerosi combattenti, che non parlavano arabo, probabilmente ceceni o balcanici, armati fino ai denti e non con armi leggere, ma con auto e blindati. Sono entrati nelle abitazioni, hanno saccheggiato tutto, profanato la chiesa. Tutto ciò in un’ora e mezza, lasciando il paese deserto.

C’è stata una reazione dura della comunità armena?

Gli armeni hanno avuto una reazione molto forte, perché questo evento ricordava loro il dolore e la sofferenza che hanno vissuto con il genocidio armeno, in cui è stato massacrato un popolo: un milione e cinquecentomila morti e tanti altri deportati, compresi esponenti siriaci, caldei e di altre comunità cristiane. Il genocidio armeno è avvenuto in varie tappe a partire dal 1880, ma il 24 aprile è l’anniversario del genocidio: proprio in questo giorno, nel 1915, i turchi hanno raccolto gli intellettuali, gli artisti, i pittori e gli scrittori appartenenti alla comunità e li hanno trucidati tutti insieme. In quel che è accaduto a Kassab, non possiamo non credere ad un coinvolgimento della Turchia, perché se fossero stati cinque o perfino cinquanta ribelli, potrebbero anche non essere stati notati e fermati, ma non è pensabile che l’infiltrazione di numerosi combattenti armati e attrezzati con armi pesanti sia passata totalmente inosservata. Soprattutto perché quest’assalto era accompagnato e coperto dalle forze aeree turche, ingerenza confermata dall’abbattimento di un jet siriano.

Davanti alla tragedia della Siria c’è un grande silenzio. Complicità o indifferenza?

Solo alcuni dei numerosi mass media cattolici hanno dato spazio all’accaduto; personalmente non ho visto nessun altro dedicarsi a Kassab; di certo hanno altri calcoli, interessi, e anche altri valori. C’è l’impressione che l’Europa utilizzi la questione umanitaria solo per i suoi interessi. In alcuni casi per una sola persona si mobilita con aiuti, interventi sofisticati e tecnologici, mentre in altri casi una città intera potrebbe essere devastata, distrutta, e svuotata dai suoi abitanti senza provocare nessuna reazione. Circa la crisi siriana, la politica dell’Europa per noi è difficile da comprendere. Dure condanne per la morte di uno o due persone in alcune zone, mentre non batte ciglio per centinaia di vittime in altre zone, dove tutto quello che fa è sedersi e contare i morti. È umiliante anche per l’Occidente ammettere di aver sbagliato, e raccontare la distruzione e i crimini degli jihadisti e del terrorismo, dipinto inizialmente come forza di rivoluzione democratica. Perciò preferiscono evitare di parlarne, forse anche perchè la questione ucraina ha distolto l’attenzione dalla crisi siriana. Dall’altro lato, tanti siriani hanno compreso l’inganno e la dimensione della trappola in cui si trovano.

Aleppo è una Via Crucis quotidiana. Cosa sta succedendo?

La presenza della comunità degli armeni ad Aleppo risale a più di tre secoli fa anche se a partire dal 1700 é cresciuta fortemente con l’arrivo dei sopravvissuti del genocidio. In questi conflitto, hanno tentato di evitare gli schieramenti condannando l’uso delle armi ma, purtroppo, le zone armene sono in pieno centro, e sono spesso prese di mira perché considerate zone lealiste, soprattutto da parte dei combattenti stranieri, ceceni afgani e arabi, che non conoscono ne’ la storia, ne’ l’identità e la composizione di Aleppo. Negli ultimi giorni, con importanti perdite, i combattenti si ritrovano davanti a due scelte: attaccare, che è complicato, o scappare, che è impossibile, perciò sfogano la loro rabbia e frustrazione colpendo, con tutto quello che hanno, le zone residenziali dove vivono i civili indifesi.

Qual è il futuro dei siriani armeni?

Gli armeni sono un popolo pacifico, intelligente e gran lavoratore. Dovunque si trovi porta dentro di se due patrie, quella che l’ha accolto e dove vive, e l’altra, il suo Paese d’origine, la sua cultura e la sua storia. Gli armeni sono molto legati alla Siria, che chiamano la “comunità madre”: il primo Paese che ha li ha accolti e salvati durante il genocidio, con affetto e generosità imparagonabili. Oggi metà dei siriani armeni ha abbandonato il Paese, ma sono tutti intenzionati a ritornare appena la guerra finirà.

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Naman Tarcha

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