Il più classico e inappuntabile dei curriculum: lui, Brendan Eich, tipico uomo americano in carriera, stimato professionista della programmazione, inventore del linguaggio Javascript, ha contribuito alla nascita del fortunatissimo browser in seno a Netscape e, solo due settimane fa, è stato nominato Ceo di Mozilla, organizzazione per il software libero.
In sostanza nulla di strano, si tratta dell’ordinaria vita privata di un uomo come tutti, se non fosse per il fatto che appena nominato, Eich è stato costretto a dare le dimissioni a causa di un peccato davvero originale compiuto qualche anno fa non lontano dalla grande mela. Nel 2008 infatti Brendan Eich donò mille dollari in favore della Propotion 8, il referendum popolare che, fino allo scorso anno, ha reso illegale in California i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Da parte sua l’ingenuo programmatore risponde quanto già aveva detto nel 2012 quando, uscita fuori la vicenda, la comunità Lgbt lo aveva a lungo attaccato inserendolo nella loro lista di haters sui quali pende implacabile la condanna alla damnatio memoriae.
Brendan Eich ha perciò invitato il pubblico a trovare “un solo episodio in cui abbia mostrato odio o non rispetto verso qualcuno per affinità a un certo gruppo o per la sua identità personale”. Ma ciò che ora la Silicon Valley gli contesta è non già il peccato di discriminazione ma, più esattamente, quello d’opinione. E non bastano le scuse, vogliono la completa rieducazione, il pentimento interiore. Per redimersi il ceo di Mozilla deve dunque sposare e difendere a spada tratta la causa gay, diventandone un convinto attivista.
Certo, “il conformista è un animale assai comune” scriveva Gaber. Il vero punto della vicenda è però più profondo e non può neppure essere ridotto ad una becera e tiepida disputa da salotto parigino, ciascuno brandendo forconi (o matterelli) gonfi di morale in difesa o a sostegno dell’omofobia. Semmai, negli stessi termini ipocondriaci con cui oggi ogni forma di rapporto con le cose sembra necessariamente tradursi in paura, direi che il reale e pericoloso problema che qui si pone è l’homofobia. Vale cioè a dire l’avversione contro l’uomo a partire dall’attacco a quel principio di unità che egli, per il puro fatto di esistere, afferma e implora con tutta la propria persona.
Infatti l’uomo dorme, lavora, piange e ride – vive! – in seno a questa grande e dinamica possibilità: che la vita sia una e che sia una vita compiuta. A venti anni come a novanta. E che, in tutto quello che fa, egli possa non essere fesso, cioè diviso, ma intero e unito al suo interno. In gioco c’è nientemeno che la percezione di sé dentro l’universo. Per questo motivo il dualismo, nella sua forma più feroce e dittatoriale che è il relativismo, non si traduce mai come il passaggio “da uno a due” ma mina sempre alle radici di quest’unica possibilità; che tutte le cose parlino e risplendano dell’uno! Già Lewis intuiva la potenza di questo dato quando parlava di “armonia con sé stessi”, riprendendo in questo modo un’idea tipicamente medievale espressa ancor prima da Aristotele. Il filosofo greco, pertanto, dopo aver definito l’uomo “animale politico” – cioè sociale -, chiarisce che “politica” è téchne architectóniche (arte progettuale) che è essenzialmente l’arte di condurre a realizzazione, di portare a compimento le cose in unità.
In questo senso direi che la vera questione che è al fondo di tutta la vicenda prescinde coscientemente da qualsiasi discorso ideologico; anzi, proprio nella misura in cui ne rimane estranea, conserverà intatta la sua radicalità e non sarà così confinata nella vaghezza di un ragionamento ma vibrerà nell’esperienza dell’uomo comune. Quello stesso uomo comune al quale parlava Aristotele.