«Gli dei lo vogliono». Con queste parole Scipione l’africano – così come Tito Livio ci riferisce nel libro XXX della sua storia di Roma – si congeda da Annibale la notte prima di Zama, rivelandogli il reale motivo per cui egli confida che l’indomani vedrà la certa vittoria dei suoi uomini sul campo di battaglia.
La lezione del martedì di Storia romana si sta avviando alle sue battute conclusive. Sono tre ore senza pausa ma nell’aula San Tommaso dell’università del Sacro Cuore di Milano regna il silenzio che anticipa le grandi imprese; il professor Giuseppe Zecchini, uno dei massimi studiosi viventi di Cesare, sta preparando la stoccata finale (deve aver certamente studiato la «Retorica» aristotelica) e la classe attende: «Con Zama assistiamo in assoluto ad una delle più gloriose azioni militari dell’antichità».
Prima ancora di questo emerge però un dato storicamente più rilevante: di ritorno dalla grande spedizione iberica, il venticinquenne Scipione, si era visto rifiutato il trionfo del senato romano che, pur gloriandosi del successo riportato, non dimenticava come questa sua azione fosse stata mossa unicamente dalla pietas verso il padre e lo zio rimasti uccisi in Spagna. In realtà sarà poi proprio questa che permetterà a Scipione di annientare definitivamente la potenza cartaginese in Africa.
Egli, infatti, senza il minimo sostegno economico da parte del senato, riuscì ad istituire e addestrare un esercito costituito in maggioranza da schiavi. Si trattava di un espediente già in uso presso i greci che, in caso di vittoria, scioglieva gli schiavi da qualsiasi vincolo con il padrone. Erano liberi, liberi di scappare, di andare via.
Al contrario, davanti al singolo schiavo che si era distinto in battaglia e aveva versato sangue per la vittoria dell’esercito, l’impero di Roma – il più grande che la storia abbia avuto – si piegava e lo chiamava a prender parte dell’“eterna” civitas romana.
Egli aveva combattuto fianco a fianco con dei cittadini romani, partecipando della stessa fatica e della stessa sorte dei cittadini romani; meritava ora pertanto questo onore: allora non gli era più detto: “hai vinto, ora sei libero, quindi và, fuggi!” ma piuttosto: “hai vinto, sei libero. Quindi resta da cittadino e, come me, fa grande Roma!”.
Prima del circolo degli Scipioni, prima di Panezio, Polibio e tutti gli altri illustri personaggi della cultura greco-latina del tempo, l’humanitas – non come concetto di ideale filantropia ma come virtù vissuta – nasceva qui.
I greci avevano inventato l’anima, Roma inventò l’individuo e, con esso, lo Stato; ad una libertà concessa come annientamento di legami e come fuga, si opponeva perciò coraggiosamente l’ipotesi di un ideale offerto e condiviso al cui servizio la libertà appena conquistata potesse liberamente esprimersi in tutto il proprio vigore.