Si intitola “Abuso e Maltrattamento all’Infanzia” il libro, recentemente pubblicato dalla Casa Editrice Franco Angeli, della psicologa e psicoterapeuta Valeria Giamundo, docente presso la Humanitas del corso di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-comportamentale. Un tema difficile e, purtroppo, di grande attualità. ZENIT ha intervistato l’autrice.
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Da quanto tempo si occupa di queste problematiche?
Dott.ssa Giamundo: Da diversi anni ormai. Ho iniziato con una collaborazione professionale presso un Centro finanziato da una ONLUS e dalla Provincia di Roma, con l’incarico di responsabile del Servizio di Diagnosi e Trattamento e con la richiesta di sviluppare modelli di intervento sui minori vittimizzati. Era la prima volta che affrontavo questi temi così da vicino: le conseguenze degli abusi agiti sui minori. Abusi che, nel 90% dei casi, erano perpetrati da figure di riferimento primarie, che normalmente riteniamo preposte al benessere del minore. Ogni caso ha rappresentato una vera e propria sfida: conquistare la fiducia del bambino, portarlo a liberarsi della sofferenza, a comunicarla e infine a vincerla. Non è facile “combattere” i danni inferti dagli abusi, deviare gli esiti psicopatologici e restituire al bambino quella condizione di benessere e quella dignità che gli spetta di diritto.
Di quali tipologie di abuso si occupa?
Dott.ssa Giamundo: Di tutte le tipologie di abuso: dall’abuso sessuale all’abuso fisico alla trascuratezza e infine anche all’abuso psicologico.
Come si affrontano le problematiche di questi bambini in terapia? E’ possibile un reale recupero?
Dott.ssa Giamundo: E’ senz’altro possibile, in special modo se l’intervento a sostegno del minore viene attuato in tempi rapidi e in una fase precoce dello sviluppo. Gli abusi non trattati in età infantile posso esitare in gravi forme di psicopatologia nell’età adulta e adolescenziale.
Nel libro propone modelli di trattamento ad orientamento cognitivo-comportamentale, di cosa si tratta?
Dott.ssa Giamundo: Si tratta di modelli complessi in quanto prevedono una fitta collaborazione con le Strutture e le Autorità che si occupano del minore abusato; un lavoro di rete, pertanto, fra operatori dei Servizi Sociali, giudici minorili, educatori delle case-famiglia e altri ancora. Collaborazione senza la quale è improbabile che si raggiungano quelle condizioni di benessere necessarie al minore per recuperare un sano equilibrio psicoaffettivo. L’approccio cognitivo-comportamentale si riferisce invece ad un modello di intervento prettamente psicoterapico che prevede il ricorso ad una specifica serie di tecniche e strategie di dimostrata efficacia. Nel caso del minore, si tratta di una procedura mirata alla rievocazione ed elaborazione dell’esperienza traumatica.
Quali sono le conseguenze più frequenti delle esperienze di abuso?
Dott.ssa Giamundo: Sono molteplici e differenziate: da difficoltà di adattamento meno gravi a disturbi della condotta, depressione e infine sindromi post-traumatiche come il Disturbo Post-traumatico da Stress, tipico di episodi singoli o improvvisi di abuso, o il Disturbo Post-traumatico Complesso tipico di esperienze precoci e ripetute o prolungate di vittimizzazione. Gli esiti inoltre possono dipendere da caratteristiche individuali del minore o da abilità di coping raggiunte al momento in cui avviene il trauma, dalla fase di sviluppo, dalle risorse ambientali e familiari. Le conseguenze di esperienze precoci di abuso e trascuratezza possono essere limitate se si interviene precocemente.
Il momento più difficile nella sua esperienza di trattamento sui minori abusati?
Dott.ssa Giamundo: Il momento più difficile è stato quando ho dovuto comunicare ad un bambino le dinamiche dell’omicidio di sua madre, sebbene in forma sintetica. L’evento accaduto sotto i suoi stessi occhi era stato rimosso comportando un danno nell’organizzazione psichica ed emotiva oltre che un’alterazione delle funzioni esecutive e delle capacità adattive; da qui la necessità della rivelazione. Forse però ancora più difficile è stato il momento in cui ho dovuto comunicare ad un bambino di 8 anni la necessità di un suo allontanamento dalla figura materna e prepararlo al collocamento presso una struttura di accoglienza. Non si può immaginare quanto profonda sia la sofferenza che un tale evento può arrecare ad un bambino.
L’allontanamento dalla famiglia è sempre necessario? Anche quando parliamo di trascuratezza?
Dott.ssa Giamundo: Dipende in realtà dalla tipologia e dalla gravità dell’abuso, incluso la trascuratezza. La giurisprudenza in campo minorile sottolinea innanzitutto il diritto fondamentale del bambino di crescere all’interno di una famiglia, preferibilmente la propria. La politica dell’allontanamento andrebbe contrastata e rivista; ho spesso, infatti, assistito ad allontanamenti non necessari, che si sarebbero potuti evitare offrendo altre soluzioni più funzionali o meno traumatiche per il minore, come ad esempio il ricorso alle cosiddette “famiglie d’appoggio”; ovvero famiglie che accolgono i minori nelle proprie case dopo la scuola per sostenerne l’educazione e la formazione; il minore rientra poi nella propria famiglia dove potrà godere delle cure affettive di base, presumibilmente preservate. Accanto a questi possono essere attivati interventi educativi per i genitori. Un’altra importante risorsa è anche rappresentata dagli interventi domiciliari di figure come gli educatori professionali che sostenendo il minore si pongono anche come modelli educativi per i genitori in difficoltà. Non andrebbe trascurato che tali soluzioni sono meno costose rispetto ai collocamenti in casa-famiglia, tuttavia ancora oggi molto raramente vengono contemplate.
Ha parlato di modelli educativi per i genitori, è dunque possibile recuperare alcune situazioni familiari? In quali casi?
Dott.ssa Giamundo: E’ possibile ma richiede investimenti qualificati e risorse umane/professionali ed economiche che oggi, più che mai, il territorio non è in grado di offrire. La soluzione, più frequente, dell’affido etero familiare è per sua definizione (giuridica) temporanea, non dovrebbe superare i due anni, ma in molti casi si protrae a lungo nel tempo configurando il cosiddetto “affido sine die”, che a mio parere non è una soluzione soddisfacente per il minore. Sì, ritornando alla domanda, la recuperabilità è possibile ma in molti casi non viene offerta alcun intervento mirato in tal senso.
Esistono delle vere e proprie procedure di intervento sulla recuperabilità genitoriale?
Dott.ssa Giamundo: Con un gruppo di colleghi, abbiamo messo appunto una procedura volta a favorire l’acquisizione delle abilità genitoriali che punta a realizzare concretamente un ricongiungimento tra genitori e figli, spesso entrambi vittime di condizioni di disagio. Nel mio libro vengono illustrati, infatti, modelli di intervento mirati non solo al bambino individualmente ma anche alle relazioni. I casi illustrati dimostrano l’efficacia dei trattamenti centrati sul recupero delle competenze genitoriali. Gli interventi-guida prendano comunque in considerazione le esigenze, molteplici e differenziate, dei minori coinvolti e delle loro famiglie; non si tratta pertanto di interventi rigidi ma di procedure flessibili fondati su modelli specifici.
Insomma ci sono speranze di recupero sia per il minore che per la famiglie?
Dott.ssa Giamundo: Certamente! Gli esiti delle esperienze traumatiche infantili vanno affrontati in una prospettiva di sviluppo; ciò implica l’intervento sul danno ma anche la prevenzione del rischio. Un trattamento precoce può impedire deviazioni di sviluppo o esiti psicopatologici e restituire al bambino il suo diritto a vivere
una vita affettiva e relazionale felice e positiva.