Quando la giustizia della Chiesa anticipa quella dello Stato

Bergoglio sanziona un prete pedofilo per la purificazione della Chiesa

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Il Papa ha deciso di ridurre allo stato laicale un prete italiano attualmente imputato per atti di pedofilia, a prescindere dall’esito del processo penale. Questa decisione costituisce una novità molto importante, dato che una fattispecie simile non si era mai prima d’ora determinata. 

In alcuni casi, essendo emerse delle responsabilità in ambito interno alla Chiesa, gli Ordinari avevano evitato di portare a conoscenza della Polizia Giudiziaria e della Magistratura le prove acquisite a carico dei Sacerdoti, limitandosi a trasferirli. Si era dunque evitato un procedimento penale, sia in ambito canonico, sia da parte dello Stato. Di qui molte giustificate lamentele da parte delle vittime, le quali però tacevano a loro volta, perchè – come spesso avviene nel caso dei reati sessuali – si vergognavano della pubblicità cui le loro vicende sarebbero state esposte.

E’ chiaro che i Vescovi, quando le prove da essi raccolte erano sufficienti per promuovere un’azione penale in ambito canonico, omettevano di compiere il proprio dovere, dato che in questo caso essi sono tenuti ad intraprenderla nell’ambito del Tribunale Ecclesiastico. Se questo fosse avvenuto, i comportamenti criminali di alcuni componenti del Clero sarebbero però giunti a conoscenza della Magistratura Inquirente, e lo scandalo sarebbe divenuto comunque di pubblico dominio.

Già Papa Benedetto XVI aveva disposto che le risultanze delle indagini interne alla Chiesa, qualora non lasciassero dubbi sull’esistenza di comportamenti contrari alla Legge Penale, dovessero costituire l’oggetto di una denunzia rivolta ai competenti organi dello Stato.

Quando per lo stesso fatto si instaurano due distinti giudizi, non esiste comunque alcun collegamento tra l’accertamento della verità processuale in sede canonica e quello che si determina in sede statuale. E dunque una sentenza di condanna pronunziata dal Potere Giurisdizionale non fa stato ai fini del procedimento che si svolge dinnanzi al Tribunale Ecclesiastico, il cui giudice non è obbligato ad attenersi a quanto accertato in altra sede.

Può darsi dunque che la stessa persona, processata nelle due distinte istanze per lo stesso fatto, venga condannata dal Tribunale dello Stato e viceversa assolta nel Foro Ecclesiastico, oppure – naturalmente – che avvenga il contrario. Ne deriva che la condanna eventualmente pronunziata in una sede, anche se definitiva, non scalfisce la presunzione di innocenza goduta dall’imputato nell’altra.

La decisione ispirata da Bergoglio è conforme con questa distinzione tra l’uno e l’altro giudizio, ma dimostra – se non una maggiore severità da parte della Chiesa – quanto meno una maggiore celerità nel giungere a sentenza. Infatti la condanna in sede ecclesiastica ha preceduto quella che verrà eventualmente pronunziata in sede statuale. Se però l’imputato venisse ipoteticamente assolto, ciò non muterà le conclusioni del processo canonico.

Che cosa significa tutto questo? In primo luogo che i Tribunali Ecclesiastici hanno dato prova, almeno in questo caso, di maggior efficienza. In secondo luogo, che la Chiesa sa essere più severa con i propri componenti di quanto lo sia un giudice esterno.

I criteri stabiliti per l’accertamento della verità processuale sono gli stessi, ma le due istanze possono decidere diversamente nell’accogliere e nel valutare le prove. Se quella ecclesiastica dovesse rivelarsi più severa, pur nel rispetto delle prerogative della difesa, la Chiesa ne trarrebbe certamente beneficio e prestigio.

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Alfonso Maria Bruno

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