La recessione patrimoniale sta devastando il tessuto industriale italiano. Manca una politica industriale in grado di contrastare il declino del nostro paese. L’indice della produzione industriale, dall’inizio della crisi (2008), è sceso del 25%. La perdita di un quinto della nostra capacità produttiva sta diventando una realtà strutturale e, rispetto alla Germania e alla Francia – dove la forward guidance è organica e di lungo periodo –, l’Italia ha perso dal 2008 20 punti di fatturato nazionale.
Il paesaggio dell’industria italiana è stato rimodellato dalla furia selvaggia della recessione. Il nostro Pil in sei anni (2007-2013) è diminuito di 9 punti percentuali portando la disoccupazione da 1,7 milioni del 2008 (con un tasso del 6,8%), a più di 3 milioni del 2013 (con un tasso del 12,1%). La vicenda Electrolux è uno degli ultimi casi che testimonia l’assenza di politiche industriali in grado di contrastare il rischio della deindustrializzazione.
In tutte le economie con forward guidance avvedute, esistono piani strategici, di medio-lungo periodo, a supporto dell’industria, che passano anche attraverso l’individuazione selettiva di aree di intervento ritenute chiave per la crescita. Da diversi anni, in Italia, manca invece una governance delle politiche industriali. Anche in sede europea la parola industria non è più una parola obsoleta.
La classe dirigente e la società civile italiane devono comprendere che la manifattura conserva per il Paese la sua centralità strategica – economica, occupazionale e identitaria – anche nell’epoca del tecnocapitalismo globalizzato; ma proprio per questo, l’industria manifatturiera è messa alla prova dalla capacità di evoluzione futura del nostro tessuto produttivo. Uno studio compiuto da Mediobanca mostra la coesistenza di reazioni diverse alla crisi. Posto a 100 l’indice del fatturato nel 2003, l’intera manifattura toccava quota 130,4 punti nel 2008: le grandi imprese arrivavano a 137,1 punti, le medio-grandi a 132,2 punti, le medie a 139,2 punti. Da allora – a fronte del calo della manifattura nel suo complesso – si è registrato il crollo dei grandi gruppi, la frenata delle imprese medio-grandi e la tenuta delle aziende medie.
Si tratta di una crisi darwinistica dell’industria italiana che evidenzia le imprese efficienti da quelli inefficienti, mostrando i punti di frattura. Il paesaggio industriale che emerge da questa crisi avviene in un Paese esausto in molte (se non tutte) le sue componenti. Lo studio della Banca d’Italia, “Il sistema industriale fra globalizzazione e crisi”, pubblicato fra gli occasional papers delle “Questioni di Economia e Finanza”, ricorda come rispetto al “picco” del 2007 il Pil italiano sia sceso di circa 9 punti.
La recessione patrimoniale, che per la prima volta affrontiamo dal dopo guerra, avviene in un momento storico di estrema fragilità della finanza pubblica, con tutto il suo potenziale di effetti negativi sul lato della stretta creditizia e di mancanza di risorse per le infrastrutture tangibili e digitali di cui hanno tanto bisogno le nostre imprese. La Banca d’Italia stima che l’industria valga ancora un quinto del valore aggiunto nazionale. Ma, soprattutto, stima che il 70% delle spese in Ricerca e Sviluppo del settore privato provenga da essa, di cui circa l’80% proviene dall’export, oltre che una funzione guida dei servizi: al terziario industriale è imputabile il 40% dell’export industriale.
Questi dati ci dicono due aspetti della recessione: un export che va bene e un mercato interno che, invece, assomiglia a un corpo colpito da una patologia anoressizzante. Fissando a 100 l’indice generale del fatturato totale del sistema industriale italiano nel 2010, l’Istat ha rilevato che gli indici di quelli nazionali e esteri non erano nel 2008 troppo dissimili, trovandosi intorno a 110 e a 113 punti. Il problema è che, in seguito, l’indice del fatturato nazionale è arrivato a toccare nel 2012 quota 95 punti, mentre quello estero superava di slancio di nuovo i 110.
La natura da Giano Bifronte dell’economia italiana è naturalmente rivelata dai cento miliardi di surplus manifatturiero con l’estero. Dunque, il problema strutturale è il mercato interno. L’intero nostro Paese non smette di proporre meraviglie, eccellenze mondiali che evidenziano la grande capacità di un Paese abituato fin dal Medioevo a “produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo” (cit. Carlo Cipolla); tuttavia esso è condizionato dal filtro di una recessione che ha accelerato i cambi di paradigma imposti negli ultimi quindici anni dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione. In particolare, la rimodulazione delle catene globali del valore pone la questione del livello in cui le aziende riescono a collocarsi in esse. In qualche maniera, la crisi iniziata nel 2008 evidenzia la condizione sospesa fra chi fa buona innovazione e il fallimento delle piccole e medie imprese e delle economie di territorio che non hanno innovato o hanno innovato male. Inoltre dimostra la grande forza propulsiva del “quarto capitalismo” delle medie imprese glocali mady in Italy.
Due ultime osservazioni in assenza di una governance industriale. La prima è la lettura sinottica effettuata dal Centro Europa Ricerche sugli esiti di tre recessioni: 2008, 1992 e 1974. L’indice della produzione industriale, posto a 100 dell’ultimo anno pre-crisi, a sei anni dall’inizio di quest’ultima recessione è fermo poco sopra i 75 punti; negli anni ’90, nello stesso numero di esercizi, era salito a 105 punti; negli anni ’70, quasi a 120. Il secondo aspetto da tenere in considerazione è il rischio che si trasformi in un fenomeno strutturale la perdita di un quinto della capacità produttiva italiana, provocata da una crisi che sta modificando in misura radicale il nostro paesaggio industriale.