È indubbio che nella fase di transazione geopolitica in atto la Turchia stia vivendo un importante momento di cambiamento e trasformazione che ha come principale obiettivo quello di abbandonare il suo ruolo di media potenza periferica, per diventare un primattore nella politica globale.
Lo slancio necessario verso tale obiettivo, che coincide con l’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdoğan del Partito giustizia e sviluppo (Akp), è stato sicuramente garantito dal dinamismo economico degli ultimi anni, dai progressi maturati in ambito sociale nonché dall’idea di «Profondità strategica» partorita dallo studioso e attuale ministro degli esteri Davutoğlu. Titolo di un poderoso volume pubblicato nel 2001 da Ahmet Davutoğlu allora docente di relazioni internazionali presso l’Università di Marmara, «Profondità strategica» è un’opera divenuta in seguito una vera e propria Bibbia per le evoluzioni geopolitiche dello stato turco.
La visione di Davutoğlu pone il Paese al centro di cerchi concentrici volti ad espandere l’influenza turca nel Vicino Oriente, in Asia centrale e in Nord Africa, pur senza tralasciare quelle che furono le vecchie direttrici del kemalismo, cioè l’appartenenza alla Nato e ai Balcani e l’avvicinamento all’Unione Europea. Ankara, posta al centro di questi cerchi, dovrebbe diventare un attore decisivo in Medio Oriente, ricoprendo quel vuoto di potenza nello spazio turco-islamico-ottomano creatosi con la fine della guerra fredda e con il fallimento della guerra americana al terrorismo. Tale sperato approccio, definito “neo-ottomano” ed esplicato con la frase «zero problemi con i vicini», mirava alla costituzione di una serie di rapporti di partenariato al fine di proiettare l’economia turca sui mercati regionali e globali e di porre il Paese alla testa del variegato mondo musulmano sunnita.
L’avvento delle famigerate primavere arabe ha fatto credere all’estabilishment del Paese che fosse giunto il momento opportuno di presentare il “modello turco” ai partiti islamisti dei paesi del Grande Medio Oriente e fare così di Ankara un’indiscussa potenza regionale. Tale strategia, incoraggiata anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea che si sono spesi per promuovere il suddetto “modello” presso gli arabi, è risultata tuttavia fatale per l’originario principio del “zero problemi con i vicini“.
La Turchia, infatti, decidendo di adottare una politica di contrapposizione al costituito asse Ankara-Damasco-Teheran (che nel frattempo si era formato compiendo progressi in Libia, Siria, Iraq e Libano) ha, di fatto, preferito rompere questo fronte con conseguente notevole inasprimento dei rapporti con tutti i Paesi confinanti e con quelli più prossimi. A tal proposito, basti pensare sia al ruolo che la Turchia ha avuto nelle operazioni libiche che a quello che attualmente sta ricoprendo in Siria per la quale, tollerando e incoraggiando le forze del jihad internazionale, auspica un rovesciamento del governo in carica.
Oltre ai difficili rapporti con i vicini, il modello turco inizia peraltro a scricchiolare anche dall’interno per via di forti contrasti che si stanno consumando tra la fazione di Erdoğan, che a causa dell’attuale momento di fragilità si dimostra sempre più autoritario, e quella del potentissimo e miliardario imam Fethullah Gülen che ha la sua sede operativa negli Stati Uniti.
I due, un tempo alleati per sconfiggere la fazioni laiche rappresentate dalle forze armate, ora si stanno dando battaglia utilizzando una illegittima influenza sui poteri statali. In particolare, parrebbe che proprio la mega inchiesta condotta dalla magistratura turca che ha coinvolto deputati e dirigenti del partito di Erdoğan accusati di aver percepito tangenti e riciclato denaro, sia stata eterodiretta dalla Pennsylvania dove vive in auto-esilio il potente magnate. Ciò grazie alla rete di suoi seguaci che sono ben radicati nella magistratura e nelle forze dell’ordine e appartenenti alla comunità religiosa da lui diretta che risulta essere una delle più potenti al mondo.
La descritta situazione, combinata alle conseguenze economiche che iniziano a gravare sul Paese e al fatto che si stia profilando a ridosso delle elezioni amministrative di marzo, risulterebbe oltremodo preoccupante per una definitiva virata islamista che la Turchia potrebbe subire sotto la pressione della potentissima organizzazione di Fethullah Gülen. Questa possibile virata oltre ad accentuare la già profonda spaccatura fra fronte laico e islamista a favore di quest’ultimo, spingerebbe il Paese ad agevolare la proiezione di potenza statunitense verso l’Asia centrale, il Medio Oriente e il Nord Africa.
Questa analisi non è peregrina se si tiene conto che per la visione degli strateghi statunitensi, la Turchia, al pari di altri Paesi quali l’Ucraina, l’Iran, l’Azerbaijan e la Corea del sud, rappresenta uno dei “perni” su cui far base per spostare il baricentro verso oriente. Ciò appare ancora più plausibile se si tiene conto del fatto che proprio all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, la potente organizzazione di Gülen è andata ad occupare inizialmente i territori dell’Asia centrale e, successivamente, anche alcuni paesi africani provvedendo alla costruzione di scuole, università, agenzie di stampa e organizzazioni di assistenza sociale atte ad adoperasi per la diffusione di un soft power turco. Naturalmente, ove tale ipotesi si realizzasse, la Turchia, pur avendo un ruolo di rilievo, manterrebbe sempre un profilo di secondo piano, rinunciando a diventare un primattore della politica globale.