di Padre John Flynn, LC


ROMA, domenica, 8 Gennaio, 2012 (ZENIT.org) - Le accuse di blasfemia, apostasia o insulto all’Islam sono sempre più utilizzate dai governi e dagli estremisti nel mondo musulmano come uno strumento per acquisire e consolidare il potere.

È il monito che emerge dal libro di Paul Marshall e Nina Shea, rispettivamente Senior Fellow e Direttore del Centro per la Libertà Religiosa dell’Hudson Institute. Nel volume Silenced: How Apostasy and Blasphemy Codes are Choking Freedom Worldwide (Oxford University Press), gli autori scrivono che quando l’iraniano Ayatollah iraniano Khomeini pronunciò la fatwa o decreto, in cui chiedeva la morte dello scrittore britannico Salman Rushdie per il suo libro I versetti satanici, alcuni commentatori occidentali lo considerarono  come un evento tra i tanti.

Il decreto, invece, ha segnato l’inizio dell’uso della legge islamica sulla blasfemia per limitare la libertà di parola. L’uso di queste leggi si è  intensificati dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Da allora l’Islam e i governi musulmani hanno attuato un controllo sempre più rigido.

Numerose autorità musulmane sono intervenute per cercare di ridurre al silenzio gli attivisti, gli analisti e i media in generale. Le leggi sulla blasfemia, già usate per opprimere le minoranze religiose all’interno dei paesi islamici, sono state estese all’esterno, con la richiesta ai governi occidentali di punire coloro che avevano presumibilmente insultato l’Islam. Secondo gli autori del libro, questa pratica rappresenta la rottura di una lunga tradizione legale islamica, secondo cui i reati commessi da non-musulmani in paesi non musulmani non sono di alcun interesse per la legge islamica.

Contrariamente alla nozione occidentale di libertà religiosa come garanzia dei diritti di un individuo, i 57 paesi membri della Organization of the Islamic Conference (OIC) lo interpreta come il rispetto per la religione islamica in tutti i Paesi.

Una parte del libro esamina come la legge sulla blasfemia e sulla apostasia venga applicata in paesi a maggioranza musulmana. Gli autori dichiarano di aver trovato i risultati del loro studio “profondamente preoccupante”. Essi hanno scoperto che tali leggi sono state utilizzate per limitare le attività degli accademici, dei dissidenti, dei riformatori e degli attivisti dei diritti umani. Inoltre, ritengono che tali restrizioni mirano a punire la libertà e l’indipendenza di pensiero e a imporre una rigida e chiusa mentalità religiosa.

Un ulteriore problema è l’eventualità che la bestemmia o l’accusa di aver insultato l’Islam, vengano strumentalizzati senza limiti. Anche all’interno dello stesso paese, le procedure e le interpretazioni sono diverse. Le leggi anti-blasfemia vengono utilizzate per reprimere i musulmani che seguono altre scuole di interpretazione. In Arabia Saudita, per esempio, il governo insiste sul fatto che l’interpretazione wahabita dell’Islam dovrebbe essere quella accolta. I Musulmani come gli sciiti, i sufi o i riformatori, potrebbero così essere accusati di apostasia.

L’Iran fa lo stesso, anche se, nel suo caso, l’interpretazione è quella sciita, e reprime le altre. Secondo Marshall e Shea, in Iran i giudici spesso seguono le loro personali interpretazioni della legge e condannano  persone per accuse generiche come “dissenso dai dogmi religiosi” o “propagazione di liberalismo spirituale”.

Un’altra parte del libro prende in considerazione i tentativi di diffondere le restrizioni in vigore nei paesi islamici in altre parti del mondo. Un caso citato è quello delle vignette danesi del 2005-06, che scatenò una crisi mondiale. Fu l’OIC a dare pubblicità all’incidente. Le vignette vennero pubblicate nel settembre 2005 e ripubblicate anche in paesi come l’Egitto e il Marocco, senza conseguenze negative, ma divennero un problema quando nel gennaio 2006 l’OIC decise di incendiare gli animi. Si scatenarono violente rivolte e circa 200 persone persero la vita.
I Paesi islamici utilizzano anche il palcoscenico delle Nazioni Unite per diffondere la legge antiblasfemia. Questi sforzi, sono iniziati più di 20 anni fa, e si sono intensificati dal 1999 quando l’OIC ha iniziato una campagna affinché le Nazioni Unite approvassero ufficialmente un divieto globale della blasfemia.

Dopo ripetuti fallimenti per ottenere un tale divieto, nel 2011 ci fu un cambiamento di tattica con l’idea di stabilire uno standard internazionale per condannare i discorsi di incitamento all’odio. La formulazione proposta, affermano Marshall e Shea, si basa su termini poco precisi e generici.

Il libro spiega inoltre come in alcuni Paesi occidentali si sta prendendo in considerazione l’ipotesi di varare leggi per limitare le critiche alle religioni. Alcune delle leggi proposte come il discorso sull’odio sono altrettanto vaghe e arbitrarie.

Le leggi non sono l’unico problema. Il saggio dedica un capitolo a come la violenza e la minaccia di assassinio sono state utilizzate per mettere a tacere i critici dell’Islam in Occidente. Tra i casi citati c’è l’assassinio di Theo Van Gogh nel 2004 in Olanda e le minacce di morte contro l’ex-islamica Ayaan Hirsi Ali.

Secondo gli autori l’imposizione di limiti su ciò che è percepito come critica ostile all’Islam è incompatibile con la libertà insita nella democrazia e nel rispetto dei diritti umani. Libertà che, come il libro di Marshall e Shea dimostra ampiamente, sono sotto continua minaccia.