di Eugenio Fizzotti
ROMA, sabato, 7 gennaio 2012 (ZENIT.org).- «La maturazione umana e la maturazione cristiana non possono essere scisse, ma fanno parte di un cammino comune che coinvolge ogni persona nel proprio processo di crescita personale. Con questa prospettiva, ogni proposta educativa e formativa non è fine a se stessa, ma fa parte di un progetto più ampio, inteso a riconoscere l’azione di Dio nella storia dell’uomo e a lasciare spazio perché ognuno possa collaborare con la creazione che Dio continua a intessere nella vita di ciascuno».
Inizia così il volume Gli altri e la formazione di sé (Edizioni Dehoniane, Bologna), con il quale Giuseppe Crea, missionario comboniano, psicologo e psicoterapeuta e docente presso varie Università Pontificie, offre numerose e qualificate piste che tutti, ma in modo particolare i sacerdoti e gli aspiranti alla vita consacrata, devono individuare e seguire con coerenza in maniera scientificamente seria e libera da quei pregiudizi riduzionistici che purtroppo sono presenti in tanta letteratura pseudoreligiosa e, peggio ancora, pseudopsicologica.
Dalla lettura attenta del volume emerge con estrema chiarezza che è lungo il percorso da effettuare per individuare e comprendere le diverse componenti che entrano in gioco nella formazione interpersonale permanente, soprattutto perché esso porta necessariamente a interrogarsi sia sull’interazione tra una prospettiva unicamente umana e una prospettiva squisitamente religiosa e sia su un quadro teorico di riferimento che sia libero da schemi pregiudiziali e riduzionistici.
Stando a quanto ha affermato lo psicologo americano Gordon W. Allport, al quale Giuseppe Crea fa spesso riferimento nel volume, non sono molti coloro che possono vantare una propria maturità religiosa, poiché per la maggior parte di essi i valori religiosi non si integrano sufficientemente nei sistemi della personalità, ma esprimono un comportamento «altro», diversificato e staccato dalla vita e dai quadri valoriali assunti come punto di riferimento.
Da parte sua, Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi che ha visto l’esperienza religiosa come effetto di repressioni di natura sessuale fin dall’infanzia, riteneva che la religione riveste addirittura un significato perverso e nevrotico, mentre Carl Gustav Jung, che abbandonò l’adesione a Freud e fece un’esperienza clinica lunga e molto ricca, evidenziò il collegamento della maggior parte delle situazioni nevrotiche con problematiche di ordine religioso, di una religiosità però legata agli archetipi religiosi e a elementi dell’inconscio arcaico e collettivo, piuttosto che al senso di responsabilità personale.
Pur tenendo presente la rilevanza dell’interrogativo circa la possibilità della piena maturità dell’individuo, Giuseppe Crea ritiene molto importante inquadrare il problema dal punto di vista processuale per poter comprendere sia la dimensione spirituale che quella umana. «Se, infatti, la maturità religiosa può essere espressa attraverso contenuti che permettono all’individuo di rilevare o meno il suo raggiungimento, va anche riconosciuto che esiste un ambito che non può essere misconosciuto, ed è quello di come la persona arriva a maturare pienamente nella totalità del suo essere profondo.
In altri termini, si può parlare del perché una persona è o non è matura, e questo porta soprattutto a riconoscere, approfondire e sviluppare i contenuti di tale maturità, semmai essa viene raggiunta. Ma ci si può anche riferire alle dinamiche che sottendono a tale sviluppo e che riguardano la vita della persona con le diverse tappe evolutive che attraversa. In tal caso l’approccio multidimensionale risulta utile (anche se non è l’unico) per affermare che il vissuto religioso della persona è sempre in sviluppo, sin dalla più tenera età. Ed è quello che conta» (pp. 7-8).
Parlare di maturità sacerdotale significa allora guardare a come la persona si evolve nelle diverse dimensioni che la costituiscono, integrate in una globalità che si esprime lungo tutto l’arco della vita, in un contesto aperto alla relazione-con-l’altro e con modalità che la differenziano da ogni altro individuo.
Tale prospettiva eminentemente psicologica si rivela particolarmente utile per delineare le caratteristiche valoriali dell’esperienza umana e, andando «oltre il problema» dell’esistenza o meno di una maturità ideale voluta ma difficilmente raggiungibile, assegna priorità a ciò che c’è, e cioè un continuum in cui ogni persona si riconosce in base all’integrazione delle diverse componenti psicologiche – intrapersonali e interpersonali – che concorrono a renderla ricca e aperta al mondo dei valori e alle sfide che esso le presenta quotidianamente.
Solo in tale orizzonte la «personalità matura» del sacerdote e della persona consacrata può essere accostata e interpretata, perché permette di riconoscere le diverse angolature che vi concorrono a livello emozionale, rituale, sociale, cognitivo e motivazionale, e di integrarle in un tutt’uno organico e dinamico.
Si tratta fondamentalmente di un atteggiamento proattivo che prende in considerazione il «qui e ora» di ogni vissuto, compreso quello che la persona qualifica come «interpersonale», lo intende come espressione della propria attitudine di fondo e come prerogativa per un rapporto di relazionalità attuale e reale con l’assoluto, e lo colloca in un ampio quadro processuale che abbraccia l’intera vita e tiene presente l’armonicità dello sviluppo dal punto di vista sia funzionale che tensionale. La persona «relazionale», infatti, sviluppa passo passo ciò che vive del suo rapporto con l’ambiente al momento presente, vi include la sua storia passata e la proietta in un progetto futuro che non si limita a frammenti culturali e psicologici, ma si arricchisce dei diversi contributi che concorrono a renderlo veramente dinamico e propositivo.
Ciò sta a indicare che il processo di crescita evolutiva del sacerdote e della persona consacrata ha un oggetto di valore, che è dato dall’esperienza appartenente all’individuo che si relaziona con l’assoluto, ed è caratterizzato dallo sviluppo di un’intenzionalità intesa a dare spazio a scelte di solidarietà e di impegno che siano coraggiose, libere e responsabili.
Si tratta, dunque, di un percorso esperienziale fondato sul presupposto che la persona, grazie alla sua radicale apertura al mondo esistenziale che la circonda (in tal senso lo psichiatra viennese Viktor E. Frankl parla di «autotrascendenza»), è in grado di riconoscere sia gli altri che Dio come un Tu / Tu diverso-da-sé, opera un passaggio dall’eteronomia all’autonomia e vive una modalità di interazione che le consente come conseguenza di riconoscere e di realizzare le proprie potenzialità.