Come abbiamo visto nella prima parte di questo lungo articolo suddiviso in più sezioni, la questione relativa all’arte sacra nel mondo contemporaneo è molto complessa. Per motivi anche di spazio, mi riservo di approfondire in altri luoghi gli spunti di riflessione qui presentati. L’idea di fondo è che solo analizzando in modo compiuto l’identità dell’arte si possa affrontare in maniera corretta la delicata condizione dell’arte sacra. In altre parole uno dei temi importanti, sia in campo storiografico che in quello teoretico, è la ri-definizione stessa del concetto di arte, che nella contemporaneità è divenuto a volte equivoco ed altre contraddittorio o più semplicemente assente, poiché, agli albori della modernità, è stato dato per morto.
È necessario, quindi, mettere in campo una metodologia efficace per affrontare lo studio dell’intero organismo della questione artistica, ovvero una metodologia capace di analizzare le parti, distinguendo i diversi campi del sapere specificatamente competenti, capace poi di individuare il principio vitale che si manifesta nell’insieme totale così come in ogni singola parte, anche periferica, e capace infine di restituire la dinamicità propria della natura artistica. Questo implicherebbe non solo un esito storiografico, ma anche un nuovo impulso teoretico, capace di muovere e far muovere le cose.
Occorre partire dalla consapevolezza della crisi postmoderna delle grandi narrazioni, ma anche dalla coscienza che già le grandi narrazioni moderne si ponevano in modo problematico: esistono infatti alcuni elementi – come abbiamo già visto nella prima parte di questo articolo – che sono ignorati o conosciuti solo dagli specialisti, e che dunque a stento e malamente sono entrati nelle grandi narrazioni, ovvero nelle storie dell’arte che si usano come punti di riferimento per orientarsi nel complicato panorama delle questioni artistiche ed estetiche.
La crisi vissuta e prodotta dalla generazione della seconda metà del XIX secolo, come ha evidenziato Jean-François Lyotard, nel suo saggio La condizione postmoderna (1979), si radica nel processo di delegittimazione del sistema dei saperi tradizionali; con riferimento al periodo successivo alla II Guerra Mondiale, Lyotard scrive: «l’impatto che la ripresa e la prosperità capitalistica da una parte, e l’effetto depistante del decollo tecnologico dall’altra, possono esercitare sullo statuto del sapere, è chiaro. Ma è in primo luogo necessario rintracciare i germi di delegittimazione e di nichilismo che erano già immanenti alle grandi narrazioni del XIX secolo per comprendere come la scienza contemporanea fosse già esposta a simili impatti assai prima che essi avessero luogo»1. Lyotard, dunque, sottolinea che prima che si verificasse l’impatto che ha devastato la legittimazione del sapere nel XX secolo, si erano preparate tutte le premesse perché ciò accadesse già nel secolo XIX poiché «una scienza che non ha trovato la sua legittimità non è vera scienza, essa cade al più basso dei ranghi, quello di ideologia o di strumento di potenza, se il discorso che doveva legittimarla si è esso stesso presentato come un prodotto di un sapere pre-scientifico, allo stesso modo di un “volgare” racconto»2. Questo processo è accaduto anche all’arte che, da sistema di sapere quale era, è stata declassata al rango di ideologia e poi semplicemente a quello di strumento di potere. Ciò ha coinvolto persino il mondo dell’arte sacra; tanto che la storiografia, anche da parte cristiana, ha cominciato a male interpretare i grandi capolavori artistici, giudicandoli come espressione di un cattivo uso del denaro, come mezzi di propaganda, come meri strumenti di potere. In questa ottica, per esempio, il Rinascimento viene sovente interpretato come sintomo della corruzione dei costumi curiali ed il Barocco viene addirittura presentato come la vergogna del potere temporale della Chiesa.
Analizzando ulteriormente la questione, Lyotard rintraccia un periodo preciso della cesura, del taglio, della perdita di continuità con il passato, e lo individua proprio nel pessimismo derivato dalla crisi del sapere scientifico alla fine del XIX secolo: «di questo pessimismo si è nutrita la generazione viennese all’inizio del secolo: gli artisti, Musil, Kraus, Hofmannsthal, Loos, Schonberg, Broch, ma anche i filosofi Mach e Wittgenstein. Essi hanno indubbiamente portato il più lontano possibile la coscienza e la responsabilità teorica e artistica della delegittimazione»3, e conclude affermando che «il lavoro del lutto è compiuto. Non è il caso di ricominciarlo»4.
Rintracciare, dunque, il momento di rottura e collegarlo a cause antecedenti, pone in campo la questione del ruolo delle arti, della loro natura, del loro statuto e quindi di conseguenza della peculiarità stessa dell’arte sacra all’interno del contesto contemporaneo.
Se non si comprendono le dinamiche della delegittimazione operata dall’esterno sulle arti – in una prima fase dall’affermazione delle “scienze positive” e poi dalla loro successiva delegittimazione come vero sapere, che ha introdotto un endemico processo di scetticismo -, difficilmente si capiscono le dinamiche di mutamento accadute all’interno di esse. Infatti, come reazione, si pensò per prima cosa di offrire alle arti dei sistemi positivi, che la ponessero al riparo dalla “prima” delegittimazione: si sono così approfonditi gli aspetti “scientifici” tradizionalmente legati all’arte, quali l’ottica o la teoria della luce, nel tentativo di mantenere la pittura, se non nel novero delle scienze, almeno in quello delle arti intese come discipline con uno statuto particolare, capace ancora di una produzione veritativa. Poi, in seguito, delegittimate anche le scienze, si è eliminato ogni aspetto tecnico conoscitivo, veritativo, lasciando all’arte solo il campo del sentimento e dell’espressione dell’io.
C’è stato un momento, dunque, in cui, dopo la grande delegittimazione del sistema artistico avvenuta nel Decadentismo, dal Futurismo in poi, l’arte venne associata alle più dinamiche tecnologie emergenti, muovendosi in tutte le direzioni in maniera spasmodica e onnivora, come se, divenendo profeta del progresso tecnologico, il sistema artistico ottenesse la speranza di una nuova legittimazione; ma anche questa fase è stata superata con delusione, quando il mercato ha assorbito quanto rimaneva dell’operazione artistica. Quasi con unanimità, viene individuato nel 1973 e nell’azione di Andy Warhol l’inizio di questa fase di identificazione tra arte e mercato; così per esempio, sottolinea Arthur C. Danto. Mario Perniola evidenzia la peculiarità di questa operazione: «prima della Pop Art le opere nascevano come tali e solo successivamente diventavano merci di lusso, ora esse nascono già come prodotti di un mercato in cui circolano beni di lusso: la mercificazione è la loro essenza stessa»5.
Le arti, dunque, negli ultimi cento anni, sono state spinte prima verso una deriva scientista, poi in una riserva intimista e nel contempo in quella tecnologista, per poi essere definitivamente vendute al mercato.
Nella generalizzata crisi filosofica e culturale, il mercato è stato assunto come panacea di tutti i problemi sociali, politici, economici, e dunque anche artistici. Ma, come stiamo ormai constatando da anni, il mercato e le sue leggi non sono in grado, da sole, di legittimare il “mercato dell’arte”, né sono capaci di risolvere tutte le questioni sociali che esso stesso genera; la logica del puro profitto non è in grado in alcun modo di regolare alcunché, visto che i mali endemici della finanza si ripresentano costantemente, senza che nessuno abbia la forza di fermarli e di modificarli.
Pochi giorni fa Benedetto XVI ha ribadito la diagnosi del problem
a e la relativa cura, ovvero che «“l’economia non funziona solo con una autoregolamentazione mercantile, ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare per l’uomo”, e che nell’attuale crisi economica, si conferma “quanto è già apparso nella precedente grande crisi: che la dimensione etica non è una cosa esteriore ai problemi economici, ma una dimensione interiore e fondamentale”. L’economia, infatti, affermava ancora Benedetto XVI “funziona veramente bene solo se funziona in modo umano nel rispetto dell’altro con le diverse dimensioni: responsabilità per la propria Nazione e non solo per se stesso, responsabilità per il mondo”. E ancora “La nazione non sta in sé, anche l’Europa non sta in sé, ma è responsabile per l’intera umanità e deve pensare ad affrontare i problemi economici sempre in questa chiave di responsabilità anche per le altre parti del mondo, per quelle che soffrono hanno sete e fame e non hanno futuro”. Questa responsabilità implica anche il futuro. “Se i giovani di oggi non trovano prospettive nella loro vita anche il nostro oggi è sbagliato, è male”. “La Chiesa con la sua dottrina sociale, con la sua dottrina sulla responsabilità di Dio apre la capacità di rinunciare al massimo del profitto e di vedere le cose nella dimensione umanistica e religiosa, cioè essere l’uno per l’altro”»6.
Ciò che vale per le scelte economiche, vale a maggior ragione per quelle culturali. Occorre raccogliere il messaggio del Papa: ancora si può e si deve affermare che si sono compiute scelte sbagliate; c’è ancora lo spazio per una presa di coscienza critica nei confronti delle impostazioni fondamentali che la modernità ha imposto e che la postmodernità ha relativizzato. La questione artistica è solo una parte di un insieme in crisi, ma, a mio avviso, può anche divenire il luogo in cui cominciare ad elaborare il metodo per mettere in pratica l’uscita dalla crisi.
Per comprendere la questione contemporanea dell’arte sacra, è dunque necessario mettere ordine per riorganizzare innanzitutto una narrazione forte, che abbia l’audacia di voler essere vera; solo da analisi di questo tipo, si possono trarre ipotesi per soluzioni realmente concrete. Non si può ignorare la situazione sociologica nella quale ci troviamo, occorre prendere piena coscienza della cosiddetta situazione postmoderna, risalendo fin all’analisi della modernità.
Anche solo limitandoci al caso dell’arte, lo sforzo di trovare una soluzione è grandissimo. Si contrappongono due posizioni, tra loro spesso in tensione. Da una parte la necessità definitoria, che è propria di chi vuole trovare una soluzione percorribile stabile; dall’altra la rinuncia ad ogni definizione, propria di chi ritiene la post-modernità talmente flessibile, da non poter tollerare un sistema che per sua natura s’irrigidirebbe nel produrre un sistema o nel ri-proporre un sistema. Infatti, ciò che risulta indigesto alla contemporaneità post-moderna è proprio la possibilità di affermare o anche solo cercare una definizione. Per questo, come abbiamo più volte affermato, viviamo in un paradosso, che sembra descriversi come una “architettura impossibile” di quelle disegnate da Escher: la condizione in cui viviamo ha di fatto annullato ogni capacità definitoria bollandola come fonte di intolleranza e quindi causa di dissidio personale, sociale, politico, economico o culturale; tutto deve vivere “obbligatoriamente” tra le altre cose sullo stesso piano, annullando ogni diversità, ogni ben che minimo ostacolo alla possibile convivenza pacifica. Così, come nei disegni di Escher, ogni diverso piano è paradossalmente sullo stesso piano. Per questi motivi, la soluzione decostruttivista proposta da Derrida è divenuta per molti l’unica soluzione, per eliminare ogni conflitto o dissidio. Tale ideologia, nel campo delle arti, ha prodotto come risultato l’annullamento, l’annichilimento di ogni possibilità creativa del sistema originario, in una vera e propria poltiglia omogeinizzata, sempre uguale a se stessa e quindi decontestualizzata, ma capace di essere docile al mercato e quindi al marketing, in quanto indifferentemente “prodotto di consumo”.
Questo concetto di arte può essere quello cui si fa riferimento nella Sacrosanctum Concilium o nel Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica o nel Compendio? Può il mercato dei beni di consumo essere l’orizzonte in cui far sbocciare il giardino dell’arte sacra, oppure abbiamo bisogno di dissodare un terreno favorevole, un campo che si sia conservato intatto o poco danneggiato, un luogo dove trovare una piccola capanna piena ancora di attrezzi umili, ma utili, un tugurium in cocurbitacea preservato dalla devastazione? Forse il nostro compito è quello di preparare quel terreno con quanto si è conservato in quella piccola capanna, e irrorarlo con la fede, attendendo che venga fecondato dallo Spirito.
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NOTE
1 Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 1981, pag.70
2 Ibid.
3 Ibid., pag 75.
4 Ibid..
5 Mario Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna 1983, pag. 136
6 La lezione della crisi economica, secondo il Papa: responsabilità. Non solo nazionale e mondiale, ma anche nei confronti del futuro, in www.Zenit.org, 18.08.2011.
[La terza parte verrà pubblicata lunedì 5 settembre]
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* Rodolfo Papa è storico dell’arte, docente di storia delle teorie estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, Roma; presidente della Accademia Urbana delle Arti. Pittore, membro ordinario della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Autore di cicli pittorici di arte sacra in diverse basiliche e cattedrali. Si interessa di questioni iconologiche relative all’arte rinascimentale e barocca, su cui ha scritto monografie e saggi; specialista di Leonardo e Caravaggio, collabora con numerose riviste; tiene dal 2000 una rubrica settimanale di storia dell’arte cristiana alla Radio Vaticana.