La santità di Giovanni Paolo II nasce ad Auschwitz


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di Chiara Santomiero

ROMA, sabato, 30 aprile 2011 (ZENIT.org).- “Auschwitz è stata la scuola di santità di Giovanni Paolo II: sono convinto che Wojtyla abbia capito in questo luogo la verità sull’uomo perché le domande che ognuno si pone qui sono quelle fondamentali, sul senso globale della vita”.

Non ha incertezze padre Manfred Deselaers, responsabile del programma del Centro di dialogo e preghiera di Oświęcim, sorto nel 1992 nelle vicinanze del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau per volontà del cardinale Franciszek Macharski d’intesa con i vescovi di tutta Europa e i rappresentanti delle istituzioni ebraiche. Negli ultimi sette anni di funzionamento sono passate di qui più di trentaquattromila persone, molte per partecipare ai seminari ed esercizi spirituali proposti, soprattutto tedeschi, norvegesi, statunitensi.

Si chiama “Centro di dialogo e preghiera” anche se, avverte la brochure informativa, “si ha l’impressione che in questo luogo non si possa partire né dalla preghiera né dal dialogo”. “Chiunque venga al Centro – afferma Deselaers – deve partire dall’ascolto. Dalla visita al campo di concentramento, dall’incontro con gli ex prigionieri, dallo studio dei documenti”.

Ma non si tratta solo di visitare un museo e di guardare le teche con l’impressionante quantità conservata di occhiali, scarpe, valige e persino capelli appartenenti agli internati. “In Polonia – spiega – c’è la profonda convinzione che il sangue dei morti parli: bisogna mettersi in ascolto della voce della terra di Auschwitz e avere il tempo per riflettere sulla domanda “cosa significa tutto questo per me?”. E la risposta è diversa “se si è polacchi o italiani, ebrei o cattolici o sacerdoti e tedeschi come me”. “Il reciproco rispetto per le diverse sensibilità – afferma ancora Deselaers – è la prima risposta al campo di concentramento dove c’era l’assoluta negazione dell’altro”.

Auschwitz. Intere scolaresche attraversano i cancelli di ingresso, passano sotto la scritta sinistra tracciata in modo indelebile nella memoria collettiva da film e memoriali “Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi)” e si inoltrano nei viali tra gli edifici di mattoni rossi, in silenzio, molti con gli occhi rossi, di fronte alle memorie di almeno un milione e mezzo di uomini, donne e bambini che qui hanno perso la vita nei modi più crudeli.

Birkenau evidenzia la sistematicità della volontà di sterminio, tradotta in file ordinate di baracche, doppie estensioni di filo spinato a separare i fossati scavati dagli stessi prigionieri. Solo i blocchi di cemento dei forni crematori – fatti esplodere dai nazisti prima di abbandonare il campo nel tentativo di nascondere i propri crimini – sono in disordine, così crollati uno sull’altro come un castello di carte.

Tutto suggerisce un orrore che la mente fatica ad accettare che sia stato anche solo possibile concepire: come hanno potuto delle persone fare questo a dei propri simili? “Molti chiedono – racconta Deselaers -: dov’era Dio?” che è “la stessa domanda che poneva il premio Nobel per la pace Elie Wiesel quando affermava: “Prima che Dio mi chieda ‘dove sei stato?’, io chiedo a lui ‘dove sei stato tu quando qui venivano ammazzati mio fratello, mia sorella, la mia nazione?’”.

“Non ci sono risposte facili – afferma Deselaers -, solo preghiera e silenzio: nella teologia successiva ad Auschwitz si afferma che non ci può essere preghiera autentica a prescindere da questo luogo”.

Giovanni Paolo II, secondo il responsabile del Centro di dialogo e preghiera che ha studiato tutti i documenti del Papa che riguardano questo tema, “ha in tutto questo discorso un ruolo essenziale”. Non solo Wojtyla, in quanto vescovo di Cracovia, era il vescovo di Auschwitz ma “si può dire che lui concepisse il suo sacerdozio come risposta a tutto quanto era accaduto durante la seconda guerra mondiale, alle immani sofferenze che altri avevano vissuto anche al suo posto”.

Infatti “è proprio durante la guerra che Wojtyla decide di farsi prete ed entra nel seminario clandestino organizzato dal cardinale Adam Sapieha”. “Per lui – aggiunge Deselaers – che fin dall’infanzia aveva degli amici ebrei, quella di Auschwitz non era una tragedia astratta ma parte della sua vita”. Secondo Deselaers “il suo strenuo impegno a favore della dignità e dei diritti dell’uomo, la ricerca del dialogo tra cristiani ed ebrei, l’incontro di Assisi tra i responsabili delle religioni perché tutti cooperassero per la civiltà dell’amore, le radici della sua tensione per l’unità del genere umano: tutto nasce dall’esperienza di Auschwitz”.

“Nel 1965, da giovane vescovo – racconta Deselaers – Wojtyla venne ad Oświęcim per la festa di Ognissanti. Nell’omelia spiegò come fosse possibile guardare a questo luogo con gli occhi della fede”. Se Auschwitz è il luogo, disse “che ci fa vedere fino a che punto l’uomo può essere o diventare cattivo” tuttavia “non si può rimanere schiacciati da questa terribile impressione ma bisogna guardare ai segni della fede, come Massimiliano Kolbe”.

Il suo esempio “ci mostra come Auschwitz evidenzi anche tutta la grandezza dell’uomo, tutto ciò che l’uomo ‘può’ essere, vincendo la morte in nome dell’amore così come ha fatto Cristo”. E quando venne qui da Papa per la prima volta “affermò che le vittorie sull’odio in nome dell’amore non appartengono solo ai credenti e che ogni vittoria dell’umanità su un sistema anti-umano deve essere un segnale per noi”.

Forse anche per questo Edith Stein-S. Teresa Benedetta della Croce, che unisce la confessione della fede cristiana e la tragedia della shoah, è diventata patrona d’Europa: “Wojtyla ha voluto dire che se l’Europa cerca la sua identità nell’era moderna non può dimenticare Auschwitz”. Auschwitz è stata la scuola che ha plasmato la santità di Giovanni Paolo II, quella immediatamente percepita dalla gente: “perché qui – conclude Deselaers – Wojtyla ha compreso fino in fondo cosa significa la ‘fede’ per l’uomo d’oggi. La gente di tutto il mondo lo comprendeva perché lui comprendeva loro”.

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ZENIT Staff

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