El-Gohary, una storia di ordinaria persecuzione in Egitto

L’ossessione verso le conversioni nel mondo islamico

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di Paul De Maeyer

ROMA, venerdì, 29 aprile 2011 (ZENIT.org).- Uno tra i temi che nei Paesi musulmani creano maggiormente tensioni con le minoranze cristiane è indubbiamente quello delle conversioni. In un articolo pubblicato il 29 agosto 2007 su AsiaNews, l’islamologo e gesuita egiziano Samir Khalil Samir parlò persino di “una vera e propria ossessione verso le conversioni” nel mondo islamico.

Come ricordato da padre Samir, docente alla St. Joseph University a Beirut, sono almeno 7 i Paesi musulmani, tra cui l’Arabia Saudita e l’Iran ma anche la Nigeria, nei quali viene applicata la pena di morte per chi si converte dall’islam ad un’altra religione. La conversione viene considerata infatti “come un’azione di apostasia che merita la morte”. Altri Paesi, tra i quali il “moderato” Egitto, tendono a condannare i convertiti al carcere per oltraggio all’islam o per aver prodotto scandalo (fitna) rendendo pubblico il cambio di religione. Un’altra strategia per disfarsi di uno scomodo convertito è farlo emigrare, come nel caso dello scrittore e teologo egiziano Nasr Hamed Abu Zaid, che colpito da una “fatwa” poté fuggire negli anni ’90 in Olanda.

Proprio in questo modo, di recente, si è concluso felicemente un caso molto drammatico ed emblematico per il livello di persecuzione nei confronti dei convertiti dall’islam in Egitto. Si tratta di quello del cinquantottenne Maher Ahmad El-Mo’otahssem Bellah El-Gohary e di sua figlia diciassettenne Dina Mo’otahssem. Secondo quanto rivelato da Compass Direct News (21 aprile), dopo un inferno durato vari anni l’uomo è arrivato il 30 marzo scorso insieme alla figlia a Parigi da Damasco. Nella capitale francese, dove ha chiesto asilo, El-Gohary si è recato lunedì 18 aprile all’ambasciata americana per fare richiesta di asilo anche negli USA, dove vive già la sua seconda moglie, anche lei una convertita. I due coniugi non si vedono più visti dal marzo 2009.

A sbloccare la situazione è stato un permesso per l’espatrio ottenuto per via giudiziaria in seguito alla “Rivoluzione del 25 gennaio” e alla caduta del presidente Hosni Muburak. Fuggiti il 22 febbraio a Damasco, El-Gohary e sua figlia si sono sentiti in pericolo anche nella capitale siriana. Dopo un’accoglienza piuttosto fredda nell’ambasciata USA a Damasco, il convertito si è rivolto su consiglio dell’ambasciata della Santa Sede a quella di Francia per richiedere un visto d’ingresso, rilasciato lo stesso giorno. “Apprezzo veramente ciò che l’ambasciatore francese ha fatto per noi”, ha dichiarato El-Gohary. “Ci ha salvati”.

L’avvicinamento al cristianesimo di El-Gohary (o Peter Athanasius, come è anche conosciuto) è iniziato quasi 40 anni fa, quando frequentava l’accademia di polizia e condivideva la stanza con un allievo appartenente alla minoranza copta. Gli episodi di bullismo nei confronti del suo compagno cristiano suscitarono l’interesse del giovane, che non conosceva il cristianesimo. Come accade spesso in questi casi, da subito cresce anche in El-Gohary il desiderio di voler leggere la Bibbia, una decisione che provoca nei suoi genitori – suo padre è un poliziotto di alto rango – un forte disappunto, perché lo ritengono “veramente un pessimo libro” (CDN, 25 maggio 2010).

L’allievo poliziotto rimane particolarmente colpito dal brano evangelico che racconta l’incontro tra Gesù e una donna sorpresa in adulterio, che Egli salva dall’imminente lapidazione con la nota frase: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 8,7). El-Gohary è anche molto attirato dalla concezione cristiana del Paradiso, tanto diversa da quella islamica, con i suoi piaceri dei sensi.

La sua decisione di seguire Cristo, presa dopo una visione luminosa accompagnata da una forte sensazione di pace, espone El-Gohary a crescenti pressioni ed azioni di bullismo all’interno dell’accademia, anche da parte dei superiori. Mentre decide di abbandonare la carriera all’interno del corpo di polizia, la sua conversione manda in crisi anche il suo matrimonio con una musulmana, la quale chiede ed ottiene il divorzio.

La vita di El-Gohary, che nel frattempo si era risposato con un’altra musulmana (ma che si converte a sua volta), si trasforma in un incubo nell’agosto del 2008, quando intenta una causa contro il governo egiziano, chiedendo il diritto di poter cambiare la sua appartenenza religiosa sulla carta di identità. L’obiettivo è evitare che sua figlia venga considerata una “apostata”, e sia costretta a seguire a scuola i corsi di religione islamica oppure a sposare un giorno un musulmano. In Egitto, i figli vengono registrati all’anagrafe con la religione del padre e alle donne musulmane non è consentito sposare un uomo di un’altra religione.

La mossa suscita un tale clamore, che padre e figlia sono costretti a nascondersi e a vivere in luoghi segreti. Subiscono delle aggressioni verbali (persino attraverso i megafoni delle moschee) e fisiche (ignoti gettano ad esempio una sostanza acida sulla giacca della figlia, per fortuna senza causarle alcuna lesione). Persino le attività più semplici, come andare al supermercato a fare le spese o visitare una chiesa, diventano pericolose. Nel maggio 2009, il Consiglio di Stato stabilisce che cambiando religione El-Gohary ha violato la legge islamica e che è passibile della pena di morte. Il 13 giugno dello stesso anno un giudice della capitale respinge la sua causa e il 17 settembre le autorità confiscano il suo passaporto all’aeroporto internazionale del Cairo, impedendogli di uscire dal Paese. Il 9 marzo dell’anno successivo, la Corte del Consiglio di Stato a Giza si rifiuta di restituirgli il documento.

“Penso che sia una sorta di punizione per dare l’esempio agli altri musulmani che intendono convertirsi”, così ha commentato El-Gohary le azioni nei suoi confronti (CDN, 25 maggio 2010). Ma nonostante tutto, l’uomo non cede e decide di portare avanti la sua battaglia. “Voglio mostrare alla gente – così ha ribadito – la quantità di persecuzioni che i convertiti dall’islam e i cristiani soffrono qui, e che la persecuzione è andata avanti per 1.400 anni”.

La situazione è stata definita “dura, molto dura” da El-Gohary. Soprattutto per la figlia adolescente, cresciuta negli ultimi anni senza amiche o compagne, la vita segnata dall’isolamento è stata molto pesante. “Ho molta, molta paura”, ha ammesso circa un anno fa la giovane. “Non capisco perché vengo trattata in questo modo”, ha continuato la ragazza, il cui sogno è diventare stilista. “Io ho scelto la religione perché mi piace. Allora perché debbo essere trattata in questo modo?”, ha detto Dina, che nel novembre del 2009 ha scritto una lettera al presidente statunitense Barack Obama per richiamare l’attenzione sulla persecuzione dei cristiani in Egitto.

Anche per Dina dunque, la fuga dall’Egitto – definita da suo padre “un miracolo venuto da Dio” – e l’arrivo in Francia segna la fine di un lungo incubo e l’inizio di una nuova vita. Senz’altro una buona notizia in questo tempo pasquale.

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ZENIT Staff

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