di Paul De Maeyer
ROMA, domenica, 24 aprile 2011 (ZENIT.org).- Per fortuna non sono esplose, ma se le bombe fossero saltate in aria avrebbero probabilmente provocato una carneficina senza precedenti. Su segnalazione di alcuni sospetti terroristi, arrestati giovedì 21 aprile (19 in totale), la polizia indonesiana ha sventato un attentato di grossa entità contro una chiesa cattolica nei pressi della capitale Giakarta.
Le notizie non sono concordanti, ma il Jakarta Globe (23 aprile) parla di sette bombe, cinque cosiddette “pipe bombs” e due massicci zaini bomba. Erano sepolte in un terreno incolto vicino alla Christ Cathedral Church a Serpong, nella reggenza di Tangerang, un quartiere suburbano a sudovest della capitale. Gli ordigni sono stati disattivati dagli artificieri del reparto speciale “Degana”, e le autorità indonesiane non hanno alcun dubbio sull’obiettivo dell’attentato fallito. Era la chiesa cattolica, e le bombe dovevano esplodere proprio in occasione delle celebrazioni del Venerdì Santo.
Per rendere l’impatto ancora più devastante, le bombe erano nascoste sotto un gasdotto. Quest’ultimo avrebbe dovuto esplodere a sua volta, provocando un inferno di fiamme, che nell’intenzione dei terroristi avrebbe dovuto sommergere il luogo di culto, capace – come ha spiegato il capo della polizia nazionale indonesiana, Timur Pradopo (Associated Press, 21 aprile) – di accogliere fino a 3.000 fedeli.
In seguito alla scoperta degli esplosivi, le autorità indonesiane hanno elevato lo stato di allerta antiterrorismo ai massimi livelli per proteggere i cristiani durante il Triduo Santo e la Pasqua. “Da stasera fino al giorno dopo Pasqua, l’esercito e la polizia saranno in stato di massima allerta”, ha annunciato giovedì il Ministro coordinatore degli Affari Politici, Legali e di Sicurezza, Djoko Suyanto (Jakarta Globe, 21 aprile). La polizia di Giakarta dispiegherà più di 20.000 agenti per garantire la sicurezza delle chiese e dei fedeli. “E’ per i nostri fratelli cristiani affinché possano solennemente celebrare durante il periodo di Pasqua”, ha spiegato il capo della polizia Pradopo.
In Indonesia si registra attualmente un aumento dell’attività terroristica. Come hanno ribadito i responsabili per la sicurezza, fra cui il capo del dipartimento antiterrorismo, Ansyaad Mbai, gli arresti effettuati giovedì 21 aprile sono in relazione con i misteriosi libri-bomba inviati a metà marzo a quattro personaggi di spicco della società indonesiana, fra cui il generale Gories Mere, ex capo dei servizi antiterrorismo indonesiani e attuale responsabile dell’agenzia antidroga di Giakarta (BNN in acronimo indonesiano), e il musicista Ahmad Dhani. Gli altri due destinatari erano Yapto Suryosumarno, capo del Pancasila Youth Movement, e Ulil Abshar Abdalla, presidente del Liberal Islam Network (Jaringan Islam Liberal o JIL), entrambi noti come promotori di un islam più aperto e liberale. Il titolo del “libro” (per modo di dire) inviato a Ulil era del resto molto eloquente: “Devono essere uccisi per i loro peccati contro l’islam e i musulmani” (cfr. ZENIT, 18 marzo 2011).
Emblematico per il crescente clima di insicurezza è l’attentato suicida avvenuto venerdì 15 aprile nella moschea di una caserma di polizia della città portuale di Cirebon, nella provincia di Giava Occidentale. Un uomo trentunenne, Mohammed Syarif, si è fatto esplodere durante la preghiera, uccidendo se stesso e ferendo 30 persone, in maggioranza poliziotti. È stato – come ricordano le fonti – il primo attacco suicida compiuto all’interno di una moschea nel più popoloso Paese musulmano al mondo, uno sviluppo da non sottovalutare.
Le autorità indonesiane temono infatti che i terroristi abbiano cambiato strategia e possano prendere di mira anche i grandi centri urbani dell’arcipelago, in particolare Giakarta, come ha dichiarato il capo dell’antiterrorismo Mbai. In termini di obiettivi potenziali, la capitale è il “numero uno”, ha ribadito, aggiungendo però che anche le altre grandi città sono “bersagli potenziali” (The Jakarta Post, 21 aprile). Chi vuole compiere un attentato non lo farà in montagna perché nessuno lo saprà, ha spiegato Mbai. Ciò che cercano i terroristi è infatti l’attenzione.
Con la tattica dei plichi bomba e gli attacchi contro le minoranze – quelle cristiane ma anche la “setta” musulmana degli Ahmadi -, i gruppi radicali tentano soprattutto di imporre la loro agenda islamista al Governo, ha ribadito il capo dell’antiterrorismo in un’intervista con l’agenzia Reuters (30 marzo). Secondo Mbai, gruppi islamici finora non coinvolti in atti di terrorismo si stanno unendo alla rete terroristica, perché convergono su alcuni temi. L’Islamic Defenders Front (FPI) ha minacciato ad esempio di avviare una rivoluzione se Giakarta non metterà al bando gli Ahmadi, considerati “apostati” ed “eretici”. “Il terrorismo è politica. Il motivo è politica”, ha detto Mbai, per il quale vietare la minoranza degli Ahmadi sarebbe una sconfitta.
Il capo dell’antiterrorismo indonesiano non esclude inoltre che dietro alla nuova ondata di attentati ci sia la mano del controverso chierico musulmano Abu Bakar Ba’asyir, attualmente sotto processo. “Abbiamo trovato delle similitudini tra gli attacchi recenti e quelli precedenti organizzati dal gruppo di Abu Bakar Ba’asyir”, ha detto Mbai. L’obiettivo del chierico, noto come capo spirituale della rete terroristica della Jemaah Islamiyah (JI), è la creazione di uno Stato islamico o “califfato”, che comprenderà anche tutte le regioni a maggioranza musulmana del sudest asiatico, inclusi il sud delle Filippine e le province meridionali della Thailandia. Anche se le autorità indonesiane sono convinte di aver smantellato la rete di JI, tutto sembra indicare che i suoi membri siano comunque riusciti a trasmettere le loro tecniche a una nuova generazione di “reclute”.
In un rapporto pubblicato martedì 19 aprile, l’International Crisis Group (ICG) condivide i timori di Giakarta sul cambiamento strategico effettuato dal terrorismo “made in Indonesia”. Secondo l’organismo con sede a Bruxelles (Belgio), però, ciò non significa ancora che i gruppi radicali non attaccheranno più obiettivi stranieri in Indonesia, un Paese che è diventato la più grande economia del sudest asiatico e attira un numero crescente di investitori stranieri.
Una cosa sembra chiara. Anche se gli ultimi terroristi hanno agito da solo, come appunto Mohammed Syarif – ritenuto un “lupo solitario” -, o in piccoli gruppi, come il grappolo di militanti arrestati giovedì 21 aprile, non escludono comunque i colpi grossi, come indica l’attentato progettato contro la comunità cattolica di Serpong, per fortuna fallito. E anche il fatto che l’attentato suicida contro la moschea a Cirebon si sia concluso con una sola vittima può essere solo un fatto fortuito, dovuto forse a un malfunzionamento della cintura esplosiva che indossava l’attentatore.
Preoccupanti sono anche altre notizie. La polizia ha effettuato venerdì 22 aprile un altro arresto – il ventesimo – legato all’attentato fallito di Serpong. A finire in manette è stato un cameraman dell’emittente Global TV, Imam Firdaus. L’uomo doveva filmare la strage e trasmettere “in diretta” le immagini. Ma non finisce qui. Per la polizia è stato uno “shock” – così ribadisce il Jakarta Globe (23 aprile) – quando si è scoperto che il presunto “cervello” dietro all’attentato e ai libri-bomba, il trentenne Pepi Fernando, è il marito di una donna che lavora nel servizio delle pubbliche relazioni dell’agenzia nazionale antidroga. Questo spiega forse perché uno dei quattro destinatari dei plichi era proprio il capo dell’agenzia, il generale Gories Mere.