ROMA, sabato, 23 aprile 2011 (ZENIT.org).- «Tutti e due vengono da grandi esperienze, quella del pre-Concilio, quindi della preparazione alla grande riforma della Chiesa e l’esperienza del Vaticano II stesso. E poi sono entrambi passati attraverso i totalitarismi, e hanno vissuto in profondità i problemi dell’oppressione, della soppressione delle libertà. Due uomini di Dio appassionati della verità, della libertà, amanti dell’umanità. Quindi entrambi amici dell’uomo». Sono i principali tratti comuni tra Benedetto XVI e Papa Wojtyła nell’ottica di un testimone d’eccezione: il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, intervistato nel libro Un cuore grande. Omaggio a Giovanni Paolo II (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2011, pp. 124, euro 14) di cui anticipiamo alcuni punti interessanti.
Frutto delle conversazioni con Michele Zannucchi, direttore di «Città Nuova», il volume reca la prefazione del cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Bertone ragiona del pontificato wojtyliano e ricorda episodi inediti. Del viaggio del Papa a Cuba, ad esempio, racconta: «Il suo giudizio era molto positivo. Innanzitutto per l’entusiasmo della popolazione che aveva conosciuto una sorta di respiro di liberazione grazie a quella visita. Fidel Castro manifestò anche un sicuro affetto per il Papa che, lo ricordiamo, era già malato. Giovanni Paolo II mi confidò che forse nessun capo di Stato si era preparato alla visita di un Papa in modo tanto accurato. Aveva letto le encicliche e i principali discorsi e persino alcune poesie». In un altro passaggio, il porporato rievoca il viaggio del Papa a Torino nel settembre 1988, per il centenario delle morte di don Bosco. «Aveva la febbre alta — confida — e fece uno sforzo tremendo soprattutto nell’incontro con i giovani in una grande tendopoli a Valdocco, nel luogo delle origini delle opere salesiane: ricordo come fosse ieri la fatica che fece per non deludere le richieste dei giovani».
Particolarmente significative le pagine del capitolo «Fede e cultura» di cui anticipiamo ampi stralci.
Karol Wojtyła sapeva parlare con la modernità e con la laicità. È anche la sua impressione?
Dobbiamo riconoscere che Paolo VI era stato un uomo capace di parlare con modernità e laicità: aveva stabilito un vero e proficuo dialogo con la cultura contemporanea. E poi Giovanni Paolo II, partendo dal Concilio e approfittando anche della sua capacità di relazionarsi con gli altri, portò avanti questo dialogo con energia e convinzione. Dialogo che poi sta continuando con il Papa attuale, col «Cortile dei gentili».
Certamente, in Papa Wojtyła la cultura non poteva essere disgiunta dalla fede granitica. E così?
Giovanni Paolo II è stato un uomo di grande fede e insieme di grande cultura. Certamente nei tornanti difficili della sua vita ha manifestato una fede a tutta prova. Credo che, se non fosse stato sorretto da essa, sarebbe stato difficile per lui resistere e non soccombere: dapprima nella lotta contro il regime comunista, come Arcivescovo di Cracovia, e poi da pontefice, in momenti drammatici per la sua persona, come l’attentato subìto nel 1981, senza dimenticare alcuni passaggi cruciali della vita della Chiesa. Momenti in cui ha dovuto prendere decisioni estremamente difficili.
Qualche esempio di queste decisioni?
Alcuni fatti mi sono rimasti impressi per la loro valenza, in quanto a rigore dottrinale e capacità di apertura, anche per averli seguiti da vicino durante il mio incarico di segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. Si tratta per esempio della importante decisione di accogliere nella Chiesa Cattolica gli ex Pastori anglicani, già sposati, e di consentire loro di vivere nel matrimonio. Da una parte confermò la tradizione della Chiesa Cattolica, secondo la decisione di Papa Leone XIII di richiedere la cosiddetta «ordinazione assoluta», cioè la riordinazione senza condizioni, essendo ritenute invalide le ordinazioni della Chiesa anglicana. Dall’altra, fu aperto nel concedere l’esercizio del ministero ai sacerdoti anglicani uxorati. Mi sembra che quest’atteggiamento duplice esprima la piena conformità e la piena continuità con la fede della Chiesa Cattolica, con la sua dottrina tradizionale e consolidata, pur nell’apertura e nell’accoglienza.
Come rileggere oggi quest’atteggiamento di Giovanni Paolo II alla luce degli ultimi avvenimenti che riguardano la Comunione anglicana e l’accoglienza di suoi Pastori nella Chiesa Cattolica?
L’accoglienza riservata agli ex Pastori anglicani continua, poiché nuovi candidati si presentano tuttora alle porte della Chiesa Cattolica. Le procedure sviluppate sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II per l’accettazione al presbiterato di ministri anglicani già sposati vengono ancora seguite per trattare questi nuovi casi. Tali procedure richiedono studi formali e un periodo di tempo per la crescita e il discernimento spirituali. La recente Costituzione apostolica circa l’istituzione di Ordinariati personali per anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica (Anglicanorum coetibus), estende l’accoglienza a quanti chiedono di mantenere in qualche modo il patrimonio dell’anglicanesimo e, nel contempo, di essere parte della piena comunione della Chiesa Cattolica. Invece che singoli ministri anglicani, questa nuova apertura riguarda gruppi di persone, o anche parrocchie, con i loro ministri. Anche in questo caso, le procedure — che ora stanno iniziando nell’Ordinariato di Our Lady of Walsingham, in Gran Bretagna — seguono la tradizione della Chiesa Cattolica che richiede per i candidati al sacerdozio una adeguata formazione accademica e spirituale.
Anche se la maggior parte dei primi sacerdoti dell’Ordinariato sarà composta da uomini sposati…
Certo, ma il valore perenne del celibato viene riaffermato, richiedendo che per il futuro i preti non sposati diventino la norma in tali Ordinariati. Questi candidati dovrebbero ricevere la loro formazione, se possibile, con gli altri seminaristi diocesani, assicurando loro una seria preparazione accademica, pastorale e spirituale. L’accoglienza di questi anglicani viene perciò vissuta nel contesto di fedeltà alla dottrina e alla prassi della Chiesa Cattolica.
Un altro momento particolarmente difficile nel Pontificato di Giovanni Paolo II è stato quello in cui ha dovuto mettere mano a certe discutibili interpretazioni cristologiche. Parliamo della «Dominus Iesus», per intenderci, a cui abbiamo già accennato.
Un elemento tipico della fermezza dottrinale di Giovanni Paolo II riguarda proprio la sua passione per una cristologia vera, autentica. Il Papa stesso ha voluto in prima persona la dichiarazione dogmatica circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (Dominus Jesus), nonostante le dicerie che hanno attribuito a una «fissazione» del cardinale Ratzinger o della Congregazione per la Dottrina della Fede il fatto di aver voluto questa famosa dichiarazione, dicerie che si erano propagate anche in campo cattolico. Sì, è Giovanni Paolo II stesso che aveva chiesto in prima persona la dichiarazione, perché era rimasto colpito dalle reazioni critiche alla sua Enciclica sulla missionarietà, la Redemptoris Missio, con la quale voleva incoraggiare i missionari ad annunciare il Cristo anche nei contesti dove sono presenti altre religioni, per non ridurre la figura di Gesù a un qualsiasi fondatore di un movimento religioso. Le reazioni erano state negative, soprattutto in Asia, e il Papa ne era rimasto molto amareggiato. Allora, nell’Anno Santo — anno cristologico per eccellenza — disse: «Per favore, preparate una dichiarazione dogmatica». È stata così preparata la Dominus Jesus, densa, scarna e con un linguaggio dogmatico. Essa permane assai importante nell’attuale temperie della Chiesa perché, partendo dall’analisi di una
situazione preoccupante a raggio mondiale, offre ai cristiani le linee di una dottrina fondata sulla rivelazione che deve guidare il comportamento coerente e fedele al Signore Gesù, unico e universale Salvatore.
Inutile ricordare come, davanti a questa dichiarazione promulgata il 6 settembre 2000, sia immediatamente seguita la stroncatura da parte delle grandi agenzie di stampa internazionali e di tanti intellettuali. Come reagiste in Vaticano?
Non solo in campo «laico», ma anche in campo cattolico alcuni si allinearono a queste critiche. Il Papa rimase doppiamente amareggiato. Ci fu una sessione di riflessione proprio su queste reazioni, soprattutto dei cattolici. Alla fine della riunione, con forza il Papa ci disse: «Voglio difenderla e voglio parlarne domenica 1° ottobre, durante la preghiera dell’Angelus — eravamo presenti io, il Cardinale Ratzinger e il Cardinale Re — e vorrei dire questo e quest’altro». Abbiamo preso nota delle sue idee e abbiamo redatto il testo che lui ha approvato e poi pronunciato. Era la domenica in cui venivano canonizzati i martiri cinesi. La coincidenza aveva suggerito a qualcuno una certa prudenza: «Non conviene — gli suggerivano taluni — che lei parli della Dominus Iesus proprio in quel giorno, è meglio che lo faccia in un altro contesto. È meglio che lo rimandi, potrebbe renderlo pubblico l’8 ottobre, nella domenica del Giubileo dei Vescovi, alla presenza di centinaia di presuli». Ma il Papa rispose così a tali obiezioni: «Come? Adesso devo rimandare? Assolutamente no! Ho deciso per il primo ottobre, ho deciso per questa domenica, e domenica lo farò!».
A Madras, nel corso del suo viaggio in India del 1986, il Papa aveva parlato della necessità di un «rispettoso annuncio». Ma quel primo ottobre si era dimostrato inflessibile…
Assolutamente sì. Il Papa pronunciò senza tentennamenti né esitazioni il suo discorso in difesa della Dominus Iesus, di cui mi preme ricordare alcuni passaggi: «Con la dichiarazione Dominus Iesus — Gesù è il Signore —, approvata da me in forma speciale, ho voluto invitare tutti i cristiani a rinnovare la loro adesione a Lui nella gioia della fede, testimoniando unanimemente che Egli è, anche oggi e domani, la Via, la Verità e la Vita (Gv 14, 6). La nostra confessione di Cristo come unico Figlio, mediante il quale noi stessi vediamo il volto del Padre (cfr. Gv 14, 8), non è arroganza che disprezza le altre religioni, ma gioiosa riconoscenza perché Cristo si è mostrato a noi senza alcun merito da parte nostra. Ed Egli, nello stesso tempo, ci ha impegnati a continuare a donare ciò che abbiamo ricevuto e anche a comunicare agli altri ciò che ci è stato donato, perché la Verità donata e l’Amore che è Dio appartengono a tutti gli uomini. Con l’Apostolo Pietro noi confessiamo che “in nessun altro nome c’è salvezza” (Atti 4, 12)». E precisava ancora: «Il Documento chiarisce gli elementi cristiani essenziali, che non ostacolano il dialogo, ma mostrano le sue basi, perché un dialogo senza fondamenti sarebbe destinato a degenerare in vuota verbosità».
[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – 24 aprile 2011]