Giovanni Paolo II, profeta della Dottrina sociale della Chiesa


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di mons. Giampaolo Crepaldi*

ROMA, giovedì, 21 aprile 2011 (ZENIT.org).- Giovanni Paolo II ha dedicato tutto il suo lungo pontificato a parlarci del sì di Dio all’uomo come fondamento della Dottrina sociale della Chiesa (DSC). Questa — egli ci ha detto — non è solo un’etica e tantomeno un’ideologia, perché la Chiesa vede la giustizia dentro la carità, la fraternità dentro la fratellanza e la libertà dentro la grazia. 

Quando Giovanni Paolo II iniziò il suo pontificato erano ancora molti a considerare la DSC inutile e superflua o addirittura dannosa. Se è etica naturale — si diceva — non c’entra direttamente col Vangelo. Se è filosofia sociale ha a che fare con la ragione e non con la fede. Se è una guida al comportamento sociale bastano i libri di morale sociale.

Non rischia — ci si chiedeva — , la DSC, di apparire come un sistema, una dottrina dedotta astrattamente dal Vangelo, una forma di sacralizzazione del mondo, espressione di una presunta identità cristiana in campo sociale e politico, una terza via tra le ideologie moderne? E si rispondeva spesso di sì. Essa — si argomentava – esprime un nuovo sogno di “cristianità”, un sostanziale non rispetto dell’autonomia delle realtà terrene e il non riconoscimento della libertà e responsabilità dei fedeli laici in ordine alla costruzione della società. Ha una eccessiva pretesa universalistica, proponendosi uguale per tutte le situazioni del pianeta. Rischia di essere un’ideologia che giustifica la realtà, garantisce lo statu quo, non muove la prassi, non incide sulle strutture. Essa è, al limite, alienazione. Per questo — si diceva – il Concilio non ne aveva quasi mai parlato e Paolo VI  la presentava in tono minore. Così si diceva.

Poi, nel 1978, Giovanni Paolo II si affacciò al balcone della Basilica di San Pietro invitando a non avere paura di Cristo. E non erano, infatti, le paure della DSC altrettante forme della paura di Cristo e della sua Chiesa? Poi si recò subito a Puebla, all’Assemblea generale dell’Episcopato Latino-americano a dire che bisognava tirare fuori dal cassetto la DSC. Giovanni Paolo II fu un profeta della DSC perché iniziò subito a richiamare i cristiani al loro dovere di assumere in proprio nella loro vita l’intera DSC. Dovette denunciare gli errori e gli abusi che l’abbandono della DSC aveva prodotto. Si preoccupò di annunciare cosa la DSC fosse veramente, in continuità con tutta la tradizione del magistero della Chiesa e con il Concilio e ha messo a nudo la ideologicità non della DSC ma dei suoi detrattori.

Giovanni Paolo II è stato profeta della DSC perché ha mostrato come essa nasca dal sì di Dio all’uomo, dal progetto di amore di Dio per l’uomo, quel progetto che è stato affidato soprattutto alla Chiesa. La DSC si nutre di Vangelo e di uomo, di luce di Cristo e di problemi umani, di Chiesa e di mondo. Essa riguarda la vita della Chiesa dentro il mondo ed è espressione della carità della Chiesa verso di esso.

Karol Wojtyla e Giovanni Paolo II

La storia personale di Karol Wojtyla non è priva di importanza per spiegare come e perché Giovanni Paolo II fu profeta della DSC. Quanto fa un papa non è mai completamente riducibile all’uomo che egli era prima, ma è certamente impastato anche di quello. Lo stesso Giovanni Paolo II, del resto, ha più volte ricordato la sua esperienza di lavoratore ed ha sempre dato importanza alla sua appartenenza al popolo e alla Chiesa di Polonia. Sul piano personale Karol Wojtyla ha sempre sperimentato la significatività di Cristo per la sua vita concreta e come le sue aspirazioni di giovane, di operaio, di studente, di uomo trovassero in Cristo una luce che le valorizzava anche nella loro umanità. Questa esperienza egli la dovette provare anche dall’interno della nazione polacca. Una nazione in cui la storia civile e la storia religiosa si compenetrano in modo molto stretto.

Basta visitare la cattedrale di Varsavia o il Wawel di Cracovia per rendersi conto di come la civiltà polacca si sia nutrita di cattolicesimo e come il cattolicesimo polacco sia profondamente legato alla storia nazionale. Storia di partecipazione della Chiesa alle fatiche e ai drammi del popolo polacco, alle divisioni e alle persecuzioni, alle invasioni e ai regimi totalitari. Nella Chiesa cattolica i polacchi hanno sempre visto una forza che li rappresentava e che tutelava la loro identità e la loro libertà, anche in regime di schiavitù o durante i periodi di smembramento del territorio nazionale tra le grandi potenze limitrofe. Karol Wojtyla ha fatto esperienza di una religione di popolo, radicata tra la gente e partecipe delle sue vicende in intima condivisione. Il cattolicesimo polacco è radicato quindi nella storia, non è una chiesa nazionale nel senso nazionalistico del termine, anzi, il collegamento con Roma e con il papa ha sempre garantito quell’indipendenza e quella libertà che hanno permesso l’unità con il popolo anche nel cupo lungo periodo del regime comunista.

Dalla propria esperienza personale e da quella sacerdotale prima ed episcopale poi, Wojtyla deve aver sperimentato la “presenza” del cristianesimo nella società e la capacità della fede di animare la solidarietà, di creare cultura e civiltà, di essere forza operante nella storia concreta degli uomini.

Contemporaneamente, i suoi studi, improntati alla fenomenologia di Edith Stein, sviluppati secondo una prospettiva che la faceva incontrare con San Tommaso, guidavano il pensatore Karol Wojtyla  ad una visione della persona come “atto”. Ciò significò vedere l’agire umano — nell’amore coniugale come nel lavoro — come atto della totalità della persona avente una ricaduta prima di tutto sulla persona stessa. Agendo e operando, la persona si costruisce, si fa. Essa non è un agente individuale interessato solamente al prodotto del suo agire, ma è interessato a sé, esprime, agendo, un bisogno di essere. In questo egli incontra gli altri uomini, sicché la relazione sociale vale non tanto per cosa gli uomini fanno, ma per quello che sono o, meglio, per quello che vogliono essere agendo. La comunità è costituita da uomini tesi ad essere uomini. È il fine, e non i mezzi, a costituirci in comunità. Ma questo fine non è da noi stabilito, ci viene dato, appartiene alla nostra natura di creature destinate al Creatore. È il sì di Dio all’uomo che ci convoca. Il cristianesimo, in questo modo, viene concepito come profondamente umano e la vita dell’uomo sulla terra, l’agire umano nella prassi sociale, viene inteso come processo di umanizzazione, lo stesso che compì Gesù durante la sua vita terrena. Cristo ha a che fare in profondità con la prassi sociale dell’uomo, con il lavoro in fabbrica, con l’agire economico, perché in quei luoghi l’uomo si costruisce, incontra la verità di se stesso e degli altri. In quei luoghi egli incontra Cristo.

Gli avvenimenti del 1989 nell’Europa dell’Est e in particolare in Polonia, vengono infatti letti da Giovanni Paolo II nel III capitolo della Centesimus annus (1991) come un esempio di incontro della Chiesa con il movimento dei lavoratori. Un esempio, quindi, di chiesa popolare che ha saputo mostrare con la vita come Cristo avesse un posto nelle lotte per la giustizia. Rileggendo teologicamente quegli avvenimenti Giovanni Paolo II vide la fecondità storica della fede cristiana, che suscita il senso della dignità umana, invita a guardare in alto e anima un movimento pacifico di giustizia e di pace. Davanti ai totalitarismi la Chiesa oppone la principale resistenza, ossia la coscienza diffusa della trascendente dignità della persona umana, unico e vero antidoto ad ogni forma di regime totalitario.

Un ultimo elemento che segna profondamente Karol Wojtyla prima di essere eletto papa è il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione pastorale Gaudium et spes. Dal Concilio non deriva un depotenziamento della DSC, ma una sua più chiara collocazione dentro la missione della
Chiesa a servizio del mondo. Dopo la Gaudium et spes diventa chiaro che l’annuncio di Cristo anche nelle realtà temporali, ossia l’impegno per l’evangelizzazione e per la promozione umana, sono due aspetti inscindibili della missione della Chiesa. È partendo dal Concilio, anche se in continuità con tutto il magistero precedente, che Giovanni Paolo II potrà dire che la DSC annuncia Cristo e che è uno strumento di evangelizzazione.

La Chiesa, prima voce a difesa dell’uomo

Durante il pontificato di Giovanni Paolo II la voce del Papa è stata percepita dall’opinione pubblica mondiale come la più alta difesa dei diritti della persona umana. Nei suoi innumerevoli viaggi, Giovanni Paolo II ha difeso gli indifesi e si è fatto voce degli oppressi. Non è una novità nella storia della DSC. Anche Leone XIII, scrivendo la Rerum novarum, si faceva interprete dei diritti degli oppressi di allora, gli operai. Stupisce però la forza con cui Giovanni Paolo II ha interpretato questa tradizione, le latitudini in cui egli ha proclamato la dignità della persona, e la sua vicinanza a tutti gli oppressi dall’ingiustizia. Il mondo è stato soprattutto colpito dalla libertà della denuncia, ossia da come il Papa scavalcasse tutte le convenienze ideologiche per concentrarsi sull’uomo, qualsiasi esso fosse e per denunciare tutti gli abusi commessi contro di lui, chiunque fossero i responsabili.

Nessun timore reverenziale quando in ballo c’è la dignità della persona. In Africa, per esempio, ha condannato la schiavitù, ma anche gli odi tribali che seminano guerra e frenano lo sviluppo. In Australia ha difeso i diritti degli aborigeni e in America latina quelli degli abitanti delle degradate periferie urbane. Alla sua Polonia ha affidato un compito e poi l’ha rimproverata per non averlo pienamente portato a termine. Ha difeso il diritto dei popoli allo sviluppo ed anche quello della coppia ad una libera responsabile procreazione, criticando le dottrine ecologiste che temono la sovrappopolazione come il cancro del pianeta.

Ha celebrato il genio femminile e il diritto delle donne a partecipare alla vita sociale, ma ha anche sottolineato che questo non deve avvenire a scapito del loro ruolo di moglie e madre. In Sicilia ha tuonato contro la Mafia e in Campania ha chiesto di “strutturare” la speranza. Ha difeso i diritti del mondo del lavoro, senza mai contrapporli alla responsabilità degli imprenditori. Si è messo più volte il casco in testa per visitare fabbriche, acciaierie e miniere, testimoniando la sua vicinanza ai lavoratori e il suo sostegno alle rivendicazioni legittime dei loro diritti. Ha però anche detto che bisogna allargare il concetto di lavoro e di diritto al lavoro, comprendendo anche il lavoro familiare, quello immateriale, quello degli imprenditori e quello della società civile.

Sarebbe troppo lungo elencare gli interventi del papa Giovanni Paolo II a sostegno dei diritti umani. È però indispensabile sottolineare due aspetti non marginali: la difesa dei diritti dei più poveri tra i poveri, i bambini concepiti e viventi nel grembo materno anche se non ancora nati alla luce, e l’insegnamento sui fondamenti morali dei diritti e, quindi, sui doveri.

Nella Evangelium vitae, Giovanni Paolo II paragona i bambini non ancora nati agli operai di cui prendeva le difese Leone XIII: allora i poveri erano gli operai, oggi ci sono altri poveri, tra cui i bambini a cui con l’aborto legalizzato lo Stato nega il diritto alla vita. In questo modo Giovanni Paolo II proponeva una visione dei diritti intesi non in senso soggettivo ed individualista ma come fondati sull’oggettività della natura umana e, da ultimo, su Dio creatore. Il tema della vita è sempre stato largamente presente nel magistero di Giovanni Paolo II ed egli ripetutamente ha sostenuto che il primo tra i diritti è il diritto alla vita. Così dicendo, egli intendeva indicare che se non si rispetta quel diritto non si possono poi rispettare gli altri e che, prima o poi, la negazione di quel diritto avrebbe avuto ripercussioni negative anche sul rispetto di tutti gli altri diritti, conducendo la società, anche quella democratica, verso forme palesi od occulte di totalitarismo. Giovanni Paolo II ha fatto della vita un tema pienamente sociale e politico.

L’insistenza di Giovanni Paolo II sul dovere di rispettare la vita e sull’esistenza di una grammatica naturale che fa da base per la società mira a inserire i diritti umani dentro una cornice di oggettività al fine di toglierli dall’arbitrio. È questo il secondo aspetto fondamentale a cui si accennava sopra. Ed è anche l’elemento che maggiormente evidenzia il confronto aperto dal Papa con la modernità. Confronto per certi versi nuovo, in quanto mira a mostrare coma la Chiesa e non la modernità sia la vera paladina dei diritti umani. Questo è quanto tutti hanno percepito durante il lungo magistero di Giovanni Paolo II: la Chiesa difende e promuove l’uomo in quanto non distoglie i suoi diritti dal quadro dei suoi doveri, non li isola dalla complessità della persona e, non assolutizzandoli, anche li rafforza, perché li sottrae all’arbitrio di un singolo o di una maggioranza.

L’uomo moderno ha talvolta inteso i diritti come pura possibilità di fare, ossia come possibilità di fare tutto. Non si è però accorto che se ha il diritto di fare tutto ha anche il diritto di negare i diritti. L’aborto legalizzato è una prova evidente di ciò. I diritti, allora, sono indeboliti dalla loro stessa pretesa assolutezza. La Chiesa non rifiuta i diritti, ma inserendoli in una grammatica naturale che dia loro un senso, li sottrae all’arbitrio e li rafforza. Giovanni Paolo II ha superato la modernità ed ha difeso più della modernità i diritti umani. Li ha difesi sempre e ovunque, senza eccezioni, proprio perché li ha resi indisponibili all’uomo. Il radicamento dei diritti della persona nella sua trascendente dignità e il riferimento a Dio danno una garanzia assoluta ai diritti umani.

Il sì dell’uomo a Dio

La DSC ha la sua origine dal sì di Dio all’uomo. A questo sì Giovanni Paolo II ha risposto con un altro sì, il suo sì, il sì dell’uomo a Dio. Con questo si intende dire che alla base della DSC c’è la fede e, quindi, la continua conversione. Anche la DSC ha bisogno di conversione: da un mondo che sogna di costruirsi con le proprie mani «come se Dio non fosse» ad un mondo che riconosce la propria incapacità a fondare una convivenza umana degna di questo nome senza un aiuto dall’Alto. Alla fine, il motivo ultimo della crisi in cui era caduta la DSC prima che Giovanni Paolo II la rilanciasse consisteva propriamente in questo: l’autonomia di un mondo che pretendeva di essere ormai adulto era stata spinta tanto in là da non esserci più alcuna necessità di un riferimento a Dio nell’ambito pubblico.

Ma «non sarebbe difficile dimostrare che la concezione del singolo come persona e la tutela del valore della dignità d’ogni persona non si possono sostenere senza che siano fondati sull’idea di Dio». Senza la conversione alla DSC, ossia al fatto che la nostra storia ha bisogno della luce trascendente di Dio, il grande sforzo compiuto da Giovanni Paolo II per rimettere in pista la DSC nella vita della Chiesa e del mondo rimarrebbe incompiuto. Contemporaneamente, però, rimarrebbero senza risposta i due bisogni fondamentali della persona umana: il bisogno di verità e di amore anche nelle relazioni sociali, il bisogno dell’intelligenza e del cuore. Benedetto XVI, proprio per questo, ha ripreso il discorso di Giovanni Paolo II proprio da qui: dalla conversione a Dio che è verità e amore. 

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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa.

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ZENIT Staff

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