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È nella festa della Divina Misericordia che Giovanni Paolo II sarà proclamato beato; è nei primi vespri della Divina Misericordia che il 2 aprile del 2005, alle 21,37 papa Wojtyla ha concluso il suo pellegrinaggio terreno. Un Papa che nei suoi quasi ventisette anni di Pontificato ha proclamato 482 santi e 1345 beati, tanto che si è anche voluto parlare di “fabbrica dei santi”, espressione che se da un lato fa ben capire il numero di uomini e donne elevato all’onore degli altari da Giovanni Paolo II, dall’altro non giustifica la scelta. Certo ha impresso una brusca accelerazione ai processi di beatificazione e canonizzazione: nessuno dei Papi che lo hanno preceduto ha mai raggiunto il suo record; anzi il suo record non si raggiunge nemmeno se si sommano tutti i santi e beati proclamati nei pontificati che hanno preceduto il suo. La domanda che sorge spontanea è: perché? Perché Giovanni Paolo II ha voluto indicare alla chiesa, alle comunità cristiane queste figure di santi e beati?
Quando è stato chiamato a successore di Pietro non si è presentato con un programma riformatore, come il suo predecessore Paolo VI. Con semplicità disse: “la linea del Papa? Questa linea è la fede”. La prospettiva con la quale ha voluto impostare il suo cammino è stata quella di mettersi sulle tracce dei santi, dei martiri, dei Papi suoi predecessori. Prima ancora di indicare alla Chiesa nuove figure, Giovanni Paolo II ha voluto riscoprire, se così possiamo dire, le figure dei grandi santi italiani a partire da san Francesco – già un mese dopo la sua elezione – e poi santa Caterina da Siena. La santità per lui è la grande forza della Chiesa, spesso sconosciuta, anche negata talvolta, disprezzata.
E c’è un secondo elemento che mi piace sottolineare: la sua ordinazione sacerdotale è avvenuta nel giorno della solennità di tutti i santi. La Polonia, in quel primo novembre 1946, era uscita dalla violenza e dagli orrori della guerra e dell’occupazione nazista, e ora conosceva la presenza delle truppe sovietiche. Ma nella cappella al piano terra dell’arcivescovado di Cracovia, tutto sembra lontano e don Karol finalmente può indossare la talare. “Mi rivedo così in quella cappella durante il canto del Veni, Creator Spiritus e delle litanie dei santi, mentre steso per terra a forma di croce, aspettavo il momento dell’imposizione delle mani. Un momento emozionante!”, scrive in Dono e mistero. Il giorno dopo, 2 novembre, don Karol è nella cattedrale del Wawel, sulla collina di Cracovia; entra nella splendida chiesa e va nella cripta di San Leonardo, uno dei luoghi più amati della cattedrale. Lì sono sepolti il re Giovanni III Sobieski, il principe Jozef Poniatowski: scegliendola il Papa ha voluto esprimere un legame spirituale particolare con quanti riposano in quella cattedrale che, per la sua stessa storia, costituisce un monumento senza confronti. Non solo lì riposano i re polacchi, ma nella cattedrale del Wawel venivano incoronati. Chi visita quel tempio si trova faccia a faccia con la storia della Nazione.
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Quelle persone, scrive in Dono e mistero, sono come “i ‘grandi spiriti’ che conducono la Nazione attraverso i secoli. Non vi sono soltanto sovrani insieme con le consorti, o vescovi e cardinali; vi sono anche poeti, grandi maestri della parola, che hanno avuto un’importanza enorme per la mia formazione cristiana e patriottica”.
Come non leggere in questa affermazione, nella sua formazione culturale e spirituale una sorta di origine di quella scelta di creare tanti santi e beati. A 21 anni Wojtyla è solo: la madre è morta quando lui aveva 9 anni; a 12 anni perde il fratello Edmund e in quel 1941 perde anche il padre. Sono le letture, appunto, degli autori del periodo romantico polacco, che riconosceva al cattolicesimo un ruolo di primo piano nella formazione della coscienza nazionale della Polonia. C’è poi la spiritualità che il padre gli aveva testimoniato e insegnato sin da ragazzo; e c’è ancora l’incontro con il sarto mistico, Jan Tyranowski che si era formato alla scuola carmelitana – in un primo tempo Wojtyla aveva avuto il desiderio di entrare nell’ordine Carmelitano – e che gli aveva fatto conoscere la spiritualita di san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila. Proprio alla scuola di Tyranowski – aveva creato il “Rosario vivente”, gruppi di quindici ragazzi guidati da un giovane più maturo, un tentativo di proseguire, negli anni dell’occupazione nazista, la formazione dei giovani anche in assenza di sacerdoti – Karol Wojtyla impara che la santità non è soltanto “di casa” in chiesa, ma ogni persona è chiamata alla santità e si può farne esperienza anche nei luoghi della quotidianità, dei lavori più semplici e umili, tra chi è chiamato a esercitare una professione nobile e chi è chiamato a difendere il paese.
La beatificazione di Karol Wojtyla non è solo riconoscere la grandezza di un Papa che ha saputo guidare la Chiesa negli anni del post Concilio, facendo uscire dal silenzio chiese, nell’est europeo, che avevano vissuto privazioni, sofferenze e martirio; che ha accompagnato le grandi trasformazioni nell’Europa uscita dalla guerra fredda e dalla caduta del muro di Berlino; che ha chiamato i giovani a prendere in mano la loro vita, a diventare futuro del mondo e speranza della chiesa, come ha detto loro sin dall’inizio del pontificato. Non è infine un riconoscere che in quel tredici maggio 1981 è stata la “mano materna” di Maria a deviare il proiettile che Ali Agca aveva sparato in Piazza San Pietro, permettendo al “Papa agonizzante” di fermarsi “sulla soglia della morte”. Ma è il segno di una testimonianza di un Papa che ha saputo dare voce a chi non ha voce; che è stato compagno di viaggio di credenti e non credenti.
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