di Nieves San Martín
MADRID, martedì, 19 aprile 2011 (ZENIT.org).- Con l’arrivo di 37 cubani liberati, il Ministero degli Esteri spagnolo ritiene concluso, in una nota dell’8 aprile, il processo di “liberazione” di prigionieri di coscienza a Cuba, iniziato il 13 luglio 2010.
L’Arcivescovado dell’Avana, tuttavia, in una nota divulgata il 12 aprile indica di non aver ricevuto una notifica dal Governo cubano relativa al termine di questo processo.
Il Ministero afferma nella sua nota che c’è un periodo di sei mesi, a partire dalla presentazione della richiesta, per decidere sullo status che deve essere applicato.
“In ogni caso – ha spiegato –, mentre si attende la decisione, non c’è bisogno di protezione delle persone liberate e dei loro familiari, che godono sempre dei benefici globali dell’assistenza umanitaria”.
Tra i prigionieri arrivati in Spagna ci sono grandi differenze. Accanto a quanti sono realmente “prigionieri di coscienza” o prigionieri politici, incarcerati per aver esercitato la libertà d’espressione o per qualsiasi altro motivo che non rappresenta un crimine in alcuna democrazia, ce ne sono altri che hanno commesso atti che in qualche Paese potrebbero essere considerati crimini, come furti o sequestro con armi di mezzi di trasporto per lasciare l’isola.
E’ possibile che la decisione di chiudere il processo da parte spagnola sia dovuta a timori che il Governo cubano ripeta una “pulizia” di “personae non gratae”, approfittando dell’opportunità, come ha già fatto con la famosa spedizione negli Stati Uniti nel 1980 dal porto cubano di Mariel di migliaia di cubani che volevano lasciare il Paese.
Questi ultimi sono noti come “marielitos”. A metà degli anni Ottanta, di questi esiliati 7.000 finirono in prigione negli Stati Uniti per crimini comuni.
Alcuni dicono già che quella di ora è un’altra “operazione Mariel” in piccola scala, nella quale i prigionieri di coscienza sono mischiati a criminali comuni.