Le immigrazioni e la società del futuro


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di mons. Giampaolo Crepaldi*
 

ROMA, giovedì, 14 aprile 2011 (ZENIT.org).- Il fenomeno delle migrazioni è assai noto e complesso. Sarebbe molto ingenuo pensare che il fenomeno si possa arginare o addirittura impedire; sarebbe altrettanto ingenuo ritenere che la cosa migliore sarebbe di aprire le porte a tutti. La società multireligiosa e multiculturale non è un fatto negativo in sé né è portatrice solo di vantaggi.

Molti immigrati sono in stato di necessità e vanno aiutati, ma molti altri non hanno solo buone intenzioni. Inoltre il governo delle migrazioni ha bisogno di un concetto chiaro di integrazione che oggi non si vede ancora all’orizzonte.

Cominciamo con il chiarire che per la Dottrina sociale della Chiesa esiste un diritto di emigrare che deve essere garantito a tutti. Ognuno deve poter liberamente lasciare il proprio paese. Questo è un diritto riconosciuto e attuato nei paesi democratici, ma non sempre in paesi poco o per nulla democratici. Il diritto ad emigrare ha a che fare con la libertà personale e con la possibilità di fuggire a persecuzioni o minacce per motivi politici o religiosi. Ha anche a che fare con il diritto a cercare il proprio benessere e quello della propria famiglia.

Non esiste invece un diritto assoluto ad immigrare, cioè ad entrare in un altro paese. Questo perché ogni paese ha diritto a proteggere se stesso e a tutelare la sicurezza dei propri abitanti. Ha anche diritto a tutelare la propria identità culturale che in caso di immigrazioni massicce potrebbe essere messa in pericolo. La disciplina delle immigrazioni è quindi in relazione alla legittima difesa

e al diritto di ogni popolo a preservare condizioni di giustizia e di pace al proprio interno. In questo senso l’immigrazione clandestina va combattuta ed è lecito che uno Stato faccia valere le proprie regole davanti a chiunque voglia entrare in esso. È anche lecito che delle persone vengano espulse dal paese se entrate illegalmente.

Un paese ha anche diritto a selezionare gli ingressi, per motivi di sicurezza per esempio o di pace sociale, e a disciplinarli secondo criteri suoi propri. Dietro le migrazioni, tuttavia, non ci sono solo problemi giuridici, ma spesso anche situazioni umane molto difficili. Delle barriere all’ingresso ci vogliono, però esse devono anche rispondere ad esigenze umanitarie di accoglienza di chi è perseguitato ed in ogni caso, davanti ad un immigrato anche clandestino, non cessano i doveri che si hanno nei confronti di ogni persona umana: “c’è qualcosa di dovuto all’uomo in quanto uomo”. Si tratta allora di capire che quando qualcuno “approda” illegalmente in un paese non perde il diritto umano ad essere sfamato, dissetato, vestito e curato. Questo è dovuto a tutti, anche se poi verranno applicate le norme vigenti in questa materia che tuttavia non possono essere talmente rigide da impedire un trattamento umano delle persone interessate.

La regolarizzazione degli immigrati può prevedere delle condizioni e delle procedure da seguire ed ogni Stato si regolerà in base alle proprie leggi e al diritto umanitario. Una volta che l’immigrato è regolarizzato bisogna però applicare nei suoi confronti il diritto del lavoro e i diritti sociali. Senza disparità di trattamento con gli altri cittadini. Non ci possono essere trattamenti lavorativi diversi per gli operai immigrati. Non ci devono però nemmeno essere trattamenti di favore, che in qualche caso si riscontra nel godimento di alcuni diritti sociali, dall’asilo nido all’istruzione.

I diritti sociali e lavorativi si devono applicare subito e sono quelli che maggiormente interessano gli stessi immigrati. Molti di questi, infatti, non intendono fermarsi per sempre nel paese di accoglienza, ma dopo un certo numero di anni contano di tornare nella loro patria di origine, dopo aver messo da parte le risorse necessarie ad iniziare là una certa attività economica. Altro è il caso dei diritti politici, come per esempio il diritto di voto. Non è bene che questo sia concesso troppo presto in quanto il diritto di voto permette di contribuire alla direzione generale verso cui la società intera vuole andare. Implica una appartenenza ed una integrazione molto solide che richiedono tempo. Non è sufficiente che si impari la carta costituzionale o la lingua in uso, ma che si condividano i valori di fondo della società che si pretende di contribuire ad orientare.

Abbiamo così tre livelli distinti di problemi: i diritti umani elementari vanno garantiti a tutti, anche ai clandestini; i diritti del lavoro e sociali vanno garantiti da subito ai regolari; i diritti politici richiedono molto tempo e presuppongono una solida integrazione. Bisogna aver poi chiaro cosa si intende per società multiculturale. Essa non può significare che le varie comunità culturali vivono ognuna separata dall’altra nel proprio ghetto, ognuna con le proprie regole di vita, qualsiasi esse siano. Questa non sarebbe integrazione ma un accostamento caotico di diverse entità chiuse in se stesse che non comunicano. Ecco allora che non favorisce l’integrazione la concessione ad una certa comunità culturale di un intero quartiere di una città, o di una via. Come non favorisce l’integrazione la costituzione di classi scolastiche composte tutte da alunni di una certa etnia-cultura. Non favorisce l’integrazione nemmeno permettere che gli antichi cittadini di un quartiere debbano abbandonare le case ove sono da sempre vissuti perché invasi da genti di diversa cultura che hanno monopolizzato il territorio.

Purtroppo finora è successo soprattutto questo in Europa. Di solito capita che le comunità immigrate che vivono tra di loro senza integrazione non coltivano nessun senso di appartenenza e nemmeno di stima verso il paese che li ha accolti, anzi, per rivendicare la propria autonomia e per non farsi assimilare resistono ai costumi e alle leggi locali, tendendo a conservare completamente i propri costumi e a darsi delle proprie leggi. Si creano così delle sacche, delle nazioni nella nazione chiusi tra loro a compartimenti stagni. Non favorisce nemmeno l’integrazione l’idea di farla passare solo o soprattutto tramite la fornitura di servizi sociali agli immigrati. La partecipazione degli immigrati al nostro sistema di welfare non può essere l’unica forma di risposta alla necessità della integrazione perché è solo una risposta di tipo amministrativo e burocratico. Capita che gli immigrati imparino molto bene ad usufruire del nostro sistema assistenziale senza tuttavia nutrire alcuna stima per coloro che danno loro questi servizi e continuando a coltivare una completa autonomia culturale e sociale.

Un tema strettamente connesso con tutto ciò è il famoso criterio del “rispetto delle regole”. Bisogna accogliere chi entra nelle nostre società, ma nel rispetto delle regole. Così, almeno, si dice spesso. Il principio è corretto e l’esigenza è legittima. Però le regole rivelano sempre una cultura, non son mai semplici procedure formali. Chiedere il rispetto di alcune regole significa impedire il rispetto di altre. Non c’è una legalità senza la cultura della legalità e la cultura della legalità riguarda non solo gli ambiti del diritto e della legge, ma anche la concezione della persona e dei motivi del nostro stare insieme.

Le nostre leggi sono frutto di secoli di storia, di influssi religiosi e filosofici, di un costume diffuso. Quanto è ovvio per noi in quanto sedimentato nella nostra preistoria culturale può risultare incomprensibile per una persona di un’altra cultura. Per questo motivo non è sufficiente rifarsi al rispetto delle regole, ma bisogna anche esprimere fiducia che le nostre regole hanno un senso preciso ed esprimono non solo una convenzione ma anche dei valori. A questi valori bisogna educare i nuovi venuti. Ma non sempre chi chiede il rispetto delle regole è anche disposto ad assumersi l’onere della educazione dei nuovi venuti ad una serie di valori che sottostanno a quelle regole e per i
mparare i quali non è sufficiente fare un corso di poche ore sulla Costituzione.

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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa.

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ZENIT Staff

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