Il Maestro di Giovanni Paolo II (parte II)

Intervista a Sir Gilbert Levine

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di Kathleen Naab

NEW YORK, mercoledì, 13 aprile 2011 (ZENIT.org).- Sir Gilbert Levine è stato insignito della più alta onorificenza pontificia mai ottenuta da un ebreo nella storia del Vaticano.

E’ Gran Commendatore dell’Ordine Equestre Pontificio di San Gregorio Magno, insignito della Stella d’argento di San Gregorio.

Ma queste alte onorificenze riflettono in realtà un onore più interiore: ciò che Levine chiama “il più incredibile privilegio che avrei mai potuto ottenere come artista”, ovvero il privilegio di stringere un’amicizia spirituale con il Papa Giovanni Paolo II, collaborando con lui nel sogno della riconciliazione e della pace per tutta l’umanità.

ZENIT ha parlato con Levine dei 17 anni trascorsi come “Maestro del Papa”. Una storia che ha raccontato nelle sue memorie contenute nel libro dal titolo “The Pope’s Maestro” (Jossey-Bass).

La prima parte di questa intervista è stata pubblicata il 12 aprile.

Come ha già accennato lei stesso, sua suocera, Margit Raab-Kalina, è una sopravvissuta dell’Olocausto e il Papa le ha riservato un’attenzione speciale, sin dalla prima volta che si sono conosciuti. Cosa le ha detto in quel primo incontro?

Levine: Bisogna ricordare che mia suocera è stata ad Auschwitz. C’erano persone internate ad Auschwitz che volevano che gli Alleati bombardassero il campo per ucciderli e porre così fine al genocidio. Volevano che qualcuno venisse a dire: “Fermatevi. Tutto ciò è folle”. Uomini che uccidono uomini, donne e bambini. È mai stata allo Yad Vashem a sentire i nomi dei bambini in una camera scura? Non si possono immaginare gli orrori che ha vissuto. Io ho sentito le storie, le ho lette, sono stato ad Auschwitz. Non si può immaginare.

Non pensava in alcun modo di riuscire ad avvicinare il Papa polacco. E poi suo genero ottiene questo lavoro pazzesco. Ma invece di dire: “Ma che fai, torni indietro? Io ci ho sofferto tanto lì”, ha detto: “Vai. Gli dimostrerai che siamo vivi”. Già questa è stata una cosa straordinaria.

E mio suocero, che aveva vissuto come Anna Frank, di fronte al quartier generale della Gestapo a Bratislava, non ne voleva sapere nulla. Non mostrava alcun interesse per ciò che io stessi facendo a Cracovia. Pensava che fossi matto ad andare lì, soprattutto senza soldi e durante la Guerra fredda e il comunismo. Folle. Ma mia suocera mi aveva detto “vai e mostragli che siamo vivi”.

Quando l’ho invitata al mio primo concerto, nel 1988, ha deciso di venire e francamente ero quasi sorpreso di questa decisione. Quando il Papa ha chiesto di vedermi dopo le prove, chiedendo espressamente di vedere anche mia suocera e mia moglie, nella stessa biblioteca privata, lei non riusciva a immaginare il perché e neanche io lo sapevo.

Quando sono entrato, la prima cosa che mi ha detto è stata: “Avete provato abbastanza? Questa sera ci sarà il Papa. Sarà un concerto piuttosto importante”. Scherzava in modo inaspettato, ma lui era così. Era fantastico. Lui era sempre molto incisivo. Cercava di calmarmi perché era la prima volta che dirigevo davanti al mondo intero, come avviene quando si fa un concerto davanti al Papa.

Poi, in quel contesto quasi giocoso, ha chiamato Margit, le ha messo il braccio sulla spalla e l’ha guardata profondamente parlandole in polacco. Mia suocera parlava polacco, era incredibilmente dotata per le lingue. Il ceco era la sua lingua madre – e il tedesco – ma conosceva anche il polacco e hanno iniziato a parlare tra loro.

In quella stanza ci si accorgeva che stava succedendo qualcosa di incredibilmente strano. Era come se si trovassero in un altro mondo, nonostante stessero a due metri di distanza. Parlavano tra di loro come due persone che avevano visto la stessa oscurità, che conoscevano quel male incredibile e potente, perché l’avevano visto dai due lati dello stesso filo spinato. Così è iniziata una comunicazione interiore in cui lui le diceva: “Ti ascolto. So cosa hai attraversato”. Eravamo esterrefatti, perché l’atmosfera era totalmente cambiata. Lei era come rapita da lui, in un modo che assolutamente non si aspettava. Non so cosa si aspettasse, ma sicuramente non si aspettava quello che stava accadendo. E quando siamo andati via non è riuscita a parlare per lunghissimo tempo.

Poi quella sera dopo il concerto, è venuto da me, mi ha messo un braccio attorno alle spalle e mi ha detto: “La ringrazio di essere andato a Cracovia, e di avermi portato Cracovia. Dov’è sua suocera?”. Eravamo nella Sala Nervi. C’erano 7.500 persone, televisioni ovunque, un’orchestra e un coro, e lui mi chiedeva dove fosse mia suocera [ride]. Io gli ho risposto: “Non lo so, sta lì, tra il pubblico, non lo so”.

Non so cosa si aspettasse. Era incredibile. Voleva forse portarla sul palco? Voleva andare giù a salutarla? Veramente non lo so. Ma lei ha iniziato un percorso di cambiamento. E poi nel 1994 è venuta per il concerto di commemorazione dell’Olocausto, che io avevo fortemente voluto nel senso che desideravo tenere un concerto a Roma a cui invitare il Papa. E volevo farlo per lei. Sentivo che dovevo e potevo fare qualcosa per lei.

Il Papa è riuscito ad ascoltare quasi tutti i sopravvissuti durante l’udienza mattutina, lo stesso giorno del concerto, il 7 aprile 1994. Ha salutato ognuno dei sopravvissuti dell’Olocausto. Alcuni non riuscivano a proferire parola – erano come impietriti – mentre altri parlavano troppo. Ma ha ascoltato ciascuno di loro. Il Prefetto della Casa pontificia era andato dal Papa per dirgli che era ora di andare, ma lui ha fatto cenno che voleva ascoltare ciascuno di loro.

Poi alla fine è andato da Margit. Mia moglie stava con mio figlio Gabriel e il Papa l’ha baciato e poi ha guardato di nuovo negli occhi Margit come per dire “siamo stati lontani ma non siamo stati separati. Ho pensato a lei”. Ed è vero perché quasi ogni volta che l’ho visto, nei successivi sei anni, mi chiedeva di lei. Lei era commossa. Era una delle sei persone che hanno acceso le candele nella Sala Nervi, sul menorah dell’Olocausto. Lei ha acceso una di quelle candele, tremando visibilmente, perché sapeva che in quel momento si stava scrivendo la storia.

È morta poi qualche anno dopo, ma in pace. È stato incredibile. Poteva finalmente godersi la vita con i nipoti, trovare gioia nella famiglia. E in effetti era fuoriosa quando è morta, perché quando aveva finalmente trovato la pace, Dio l’aveva voluta chiamare a sé. Non riusciva a comprenderlo. “Mi hai fatto attraversare tutti questi anni di tormenti e tutti questi anni dopo la guerra senza che nessuno comprendesse. E poi finalmente ho trovato la pace, potevo giocare con i miei nipoti serenamente, con incredibile intensità e gioia, e ora mi stai chiamando?”. È morta con le foto di sua madre, suo padre e suo fratello, tutti uccisi dai nazisti, e una foto di se stessa con il Papa. È morta da donna ebrea, ma è morta in pace.

So che sono i miracoli successivi alla morte che contano per la beatificazione e canonizzazione, ma se c’è un miracolo di quando era ancora in vita, io l’ho visto realizzarsi in lei. Recentemente ne ho parlato con mio cognato. Lui non ha conosciuto il Papa, ma l’ha visto attraverso gli occhi di sua madre, e ha detto: “Lei è morta in pace. Era in pace in quegli ultimi anni della sua vita ed è stato grazie a lui”. Non vi è alcun dubbio su questo.

Abbiamo già parlato della sua esperienza di preghiera con lui. È come se Margit fosse un altro simbolo del tipo di rapporto che voleva stabilire tra di voi, cioè del suo voler portare la pace ai sopravvissuti, del suo voler rimuovere tutta quella violenza?

Levine: Relegarla nel passato. Assolutamente sì. E poi ha cercato di fare anche di più. Anch
e nel 2000. Pensi al fatto che io dovevo fare il concerto per celebrare il suo 80° compleanno, nell’Anno giubilare. Era il suo concerto di compleanno; poteva avere ciò che voleva. Ho suggerito di eseguire “La Creazione” di Haydn, che riprende i primi versi della Genesi, fino al punto in cui si dividono le tre Fedi, ovvero prima di quando si arriva a Isacco e Ismaele. Era quello che lui voleva. Voleva questo simbolo in quell’incredibile anno di riconciliazione. Se si ricorda la sua dichiarazione sulle colpe – la contrizione che esprimeva – voleva quel concerto per rappresentare un’apertura verso i musulmani. Questo avveniva prima dell’11 settembre.

Dopo l’11 settembre, il suo desiderio era di fare ciò che aveva fatto attraverso la mia musica per la comunità ebraica, anche per quella islamica, portando insieme le tre fedi monoteistiche, abramitiche.

Abbiamo fatto quel concerto per il Papa nel 2000 e poi abbiamo fatto un concerto a Cracovia con la Dresden Staatskapelle, eseguendo il Requiem di Brahms in occasione del primo anniversario degli attentati dell’11 settembre, alla cui pianificazione lui ha partecipato molto attivamente. E poi abbiamo fatto il Concerto della riconciliazione nel 2004. E tutto questo nel tentativo di usare la mia arte per la stessa impresa: l’impresa che aveva scoperto così efficace nei confronti degli ebrei poteva ora essere estesa anche all’Islam.

Lo voleva molto, molto fortemente. Credo che per lui sia rimasto un lavoro incompiuto. È un lavoro rimasto incompiuto per il mondo. Stiamo tutti cercando di trovare un modo, un linguaggio, un comune sentire tra di noi nel mondo.

Era questo che lui cercava, come ho detto, anche prima dell’11 settembre. Anche prima dello shock: “come hanno potuto uccidere in nome di Dio, con il nome di Dio sulle loro labbra?”. Non lo poteva immaginare. Ma era prima di quell’evento, prima di quella crisi. Era ciò che lui sentiva come il successivo passo naturale. E che io potessi lavorare con lui e prestare la mia arte a quello scopo e comprendere che quello era ciò che voleva. Voleva giungere alla riconciliazione.

È stato il più incredibile privilegio che avrei potuto avere come artista. A cos’altro può aspirare l’arte, se non a realizzare quel sogno dell’intera umanità?

L’ultima domanda. Dal suo punto di vista, da ebreo, il fatto che Giovanni Paolo II venga beatificato ha un significato particolare?

Levine: Enorme. Ricordo le scritte che c’erano il giorno del suo funerale: “santo subito”… Credo che sia già santo agli occhi di molte persone. Era impressionante la quantità di persone che erano al funerale. Io sono stato molto privilegiato, perché mi trovavo a 7 o 8 metri dal feretro, e potevo vedere i Capi di Stato. Alcuni anglicani, altri ebrei, altri musulmani. Tutti in prima fila. Tutti lì, per rendere onore allo spirito di quest’uomo. Allo spirito di quest’uomo, non alla sua morte ma al suo spirito, allo spirito vivo di quest’uomo.

La sua beatificazione, e credo anche la sua canonizzazione, custodirà solennemente quello spirito, per indicarcelo come una meta a cui aspirare nella nostra vita quotidiana. Il mio lavoro prosegue. Spero e so che sono molte le persone, nella Chiesa e al di fuori della Chiesa, che lo vedono come un faro verso cui tendere, che cercano di camminare verso quella luce che lui ci ha mostrato. Credo che la beatificazione e la canonizzazione siano il naturale sviluppo della vita che lui ha vissuto. Certamente una vita di virtù eroiche e una vita che può essere un faro per la gente, per i cattolici come per i non cattolici, in tutto il mondo.

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ZENIT Staff

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