ROMA, mercoledì, 13 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un estratto del volume San Carlo da Sezze, “La mia vita” (Edizioni Porziuncola, Assisi 2011).
* * *
Introducendo una recente biografia di san Carlo da Sezze il cardinale José Saraiva Martins, Prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi, ha affermato: «Raccomanderei la lettura di questo libro già solo per una constatazione: si tratta di san Carlo da Sezze (1613-1670), a tutt’oggi l’unico santo canonizzato dalla Chiesa che ha ricevuto direttamente dal Pane eucaristico appena consacrato una stimmata al cuore, rimarginatasi poi, ma scoperta di nuovo subito dopo la sua morte… e pensare che il povero frate di Sezze aveva appena chiesto al Signore che, “per intercessione del glorioso san Giuseppe, si degnasse di dar[gli] il suo divinissimo amore”. Allora, suggerirei la lettura di queste pagine per un altro motivo: san Carlo da Sezze insegna agli uomini e alle donne di tutti i tempi a fare sintesi tra l’umano e il divino; a riconoscersi oggetto d’amore sempre, anche nelle più naturali e autentiche esperienze, perché Dio esalta sempre l’umanità, insegnandoci che la struttura profonda della santità cristiana è la pienezza dell’umanità; a raggiungere le vette dell’unione con Dio stando con i piedi ben piantati nel quotidiano dell’esistenza di ogni giorno; a mettere insieme dolore e dolcezza, direbbe lui stesso».
Ma ecco come lo stesso san Carlo – canonizzato dal beato Giovanni XXIII – narra nella sua autobiografia appena pubblicata (San Carlo da Sezze, La mia vita, Edizioni Porziuncola, Assisi 2011) tale “stimmatizzazione eucaristica”:
Quando andavo per Roma accatando elemosina, che mi incontravo a passare avanti a qualche chiesa, portando a mano il somarello, m’inginocchiavo avanti la porta e, rivolto al Santissimo Sacramento, pregavo nostro Signore che mi desse il suo amore. Avendo perseverato molti giorni in questo affettuoso esercizio, un dì, fra gli altri, si recava in Capo le Case. Giunti alla chiesa del glorioso San Giuseppe, dove è un monastero delle monache di Santa Teresa, mi ordinò il compagno che ivi mi fermassi e avessi cura del somarello attaccato lì vicino, andando lui di lì intorno a pigliare delle elemosine. Mi posi in ginocchio a fare orazione, essendo uscita la santa Messa all’altare maggiore. Pregavo nostro Signore che invisibilmente risiede nel santo tabernacolo che, per intercessione del glorioso San Giuseppe, si degnasse darmi il suo divinissimo amore, continuando in questa orazione fino alla consacrazione.
Nell’alzare il sacerdote l’Ostia consacrata, vidi da quella con gli occhi dell’anima, uscire come un raggio di luce e venire a ferirmi nel cuore. Fu con tanta prestessa, che non gli saprei assegnar tempo. L’effetto poi che mi fece nel cuore fu una cosa sensibile fatta da un ferro materiale, e fece quel modo appunto che si vede fare ad un ferro, quando, posto nella fucina, che si è convertito tutto in cuore, così arrossito si pone in un vaso d’acqua e fa quella sorta di mormorio. Sia benedetto San Giuseppe! Per sua intercessione restai ferito dalla mano del Signore con il dardo del suo amore.
Quel che di dolore intesi, e come restai, non saprei immaginarmelo per poterlo descrivere. Fu così spirituale e penetrante, che le forze umane, senza quella di Dio, sarebbe impossibile a sopportarsi. Sebbene il dolore fosse grande era da una dolcezza estrema contemperato, che penetrava fino all’intimo dell’anima, in così grande amore la trasformava, che pareva che, frammezzo alle due estremità, cioè del dolore e della soavità, volesse uscire dal corpo. Molto dolce allora mi sarebbe stato il morire, essendo che il morir d’amore non porta pena, cagionando travaglio amoroso il non poter morire per l’assenza dell’amato, il quale l’anima vorrebbe godere in sicuro stato di gloria.
Non facevo altro per molti giorni, se non che dire: «Sia benedetto Dio! Sia benedetto Dio” Sia benedetto Dio!». Ed era tanto l’amore che sentivo dentro il mio cuore, che non capivo dentro di me medesimo. Avrei, per la gran dolcezza, lambito la terra, l’erbe e i sassi, e sopportato qualsivoglia tormento e ogni travaglio e martirio che hanno patito i santi, con le pene che si sentono nel purgatorio e nell’inferno: mi sarebbero parse poche tali pene in comparazione dell’amor grande che provavo, né tutta le acque torrenti l’avrebbero potuto estinguere!
Quando nostro Signore si degnò, per la sua liberalità, di farmi questo favore, penso che fosse il mese di ottobre nel 1648. Benedetto sia in eterno il Signore Dio! Benedetto il sia il glorioso San Giuseppe, sposo della Santissima Vergine! E benedette sia le mortificazioni, ché per esse si riceve un tanto bene dalla larga mano di Dio.