Partecipare attivamente ma senza partecipazionismo (II)


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di Aurelio Porfiri*

MACAO, martedì, 12 aprile 2011 (ZENIT.org).- Occupiamoci dunque del Concilio, che ovviamente è il momento topico per l’evoluzione del concetto di partecipazione, evoluzione che ha anche lati ancora non del tutto chiariti. L’inizio dei lavori conciliari, a quando sembra, non faceva prevedere che nell’ambito della musica sacra ci sarebbero state novità eclatanti. Anzi, nella solenne liturgia per l’apertura del Concilio l’11 ottobre del 1962, la musica eseguita nella solenne celebrazione presieduta dal cardinale Tisserant (con Papa Giovanni che assisteva dal trono, come si usava dire) è quella della grande tradizione musicale della Chiesa cattolica: la celeberrima “Missa Papae Marcelli”, il “Tu es Petrus” e l’“Ad Te levavi” di Palestrina. Il “Confirma hoc Deus” e l’”Exaudi Domine” (composto per l’occasione) di monsignor Domenico Bartolucci, Maestro della Cappella musicale pontificia in quel tempo ed oggi Cardinale. Quindi siamo pienamente nella prassi musicale di quegli anni.

Certo la Sistina era molto apprezzata dai Padri conciliari ma qualcuno sollevava obiezioni in quanto sembrava che il movimento liturgico non trovasse accoglienza nel Concilio Ecumenico. Il Cardinale Ottaviani propose di alternare durante i giorni di lavoro del Concilio, le messe celebrate in rito romano con messe celebrate in altri riti. Alcuni Padri manifestarono entusiasmo per queste celebrazioni:

Vidimus hodie pulcherrimum specimen concelebrationis et actiones et cantus et commentarium clarum et lucidum; videndo hoc spectaculum fortasse aliqui inter nos erant tentati transire a ritu latino ad ritum orientalem!” (Cardinale Gracias dopo la celebrazione in rito Melchita nella 6a congregazione generale, il 24 ottobre).

Padre Papinutti riferisce una confidenza fattagli da un Arcivescovo, e che cioè c’erano manifestazioni di entusiastica approvazione per qualunque rito tranne che per quello romano. Una certa svolta si avrà all’inizio del quarto periodo del Concilio, quando venne distribuito ai Padri un libricino che recepiva alcune delle istanze liturgiche portate avanti dal movimento liturgico. Già per l’incoronazione di Paolo VI si poterono vedere evidenti modifiche, ancora più chiare l’8 dicembre 1965, per la messa di chiusura del Concilio. La Sistina si alternò per l’introito e per l’ordinarium missae al canto del popolo. In tre anni si era fatto un lungo percorso. Questo breve quadro, largamente incompleto, ci testimonia che un cammino era stato avviato e non si sarebbe tornati indietro.

Andiamo a vedere quello che ci interessa specialmente, cioè la liturgia solenne, in quanto c’è una forte connessione tra la stessa e il concetto di partecipazione e come lo stesso si è trasformato nel tempo. L’articolo di cui ci stiamo occupando causò non poche tensioni all’interno del Concilio. Lo schema preparatorio, consisteva in una preposizione molto più lunga e articolata rispetto al testo che oggi abbiamo e vi si parlava di “liturgia sollemnis”. Alla fine invece sarà “sollemniter in cantu celebrantur”. Ma leggiamo insieme il racconto che ne fa il padre Papinutti:

Confrontando ora i due testi, si vede subito che ci sono almeno due cambiamenti sostanziali: la scomparsa della Liturgia solenne e della lingua latina. Infatti nel testo definitivo non si parla più di ‘Liturgia solenne’ come forma più nobile di Liturgia, inteso nel senso tradizionale e già stabilito nella citata Istruzione del 1958, ma semplicemente si afferma che l’azione liturgica acquista una forma più nobile quando i divini uffizi sono celebrati ‘solennemente’ in canto. E’ caduta così la distinzione tra la Messa cantata semplice e la Messa solenne”.

Le successive applicazioni della SC accelereranno il processo di riappropriazione per il popolo del ruolo che secondo il Concilio gli competerebbe, anche se verranno alla luce tensioni probabilmente irrisolte e problemi che a tutt’oggi costituiscono materia di confronto per gli operatori del settore. Sia le varie istruzioni per l’applicazione della riforma liturgica che i successivi documenti dell’episcopato insisteranno sul fatto che l’assemblea non doveva più “assistere” alla messa, ma parteciparvi “perfettamente” (per usare il termine che si trova nella prima istruzione del 26 settembre 1964). Le conseguenze di questo, purtroppo, non sono state sempre esaltanti. E’ un’occasione che si è mancata ma, fortunatamente, sempre recuperabile se ci fosse una volontà precisa in questo senso. Anche perché si è dato al concetto di partecipazione, come detto, un senso totalizzante, come se essa fosse il fine in sé, non un mezzo per arrivare ad altro.

Vorrei ora indicare cosa per me significa solennemente o solennità, secondo quello che mi sembra di aver compreso dal percorso or ora fatto e quindi in che modo si dovrebbe intendere il concetto di partecipazione. La solennità non può e non deve essere disgiunta dal dato celebrativo. Non esiste una solennità a sé stante, quando essa non è al servizio dell’azione sacra. Noi non siamo dei cultori dell’estetica fine a se stessa ma la viviamo in un contesto liturgico e rituale. Solennità è lo scatenamento dei codici di comunicazione nella liturgia. “Scatenamento” non selvaggio e incontrollato, ma iscritto nel percorso celebrativo. Noi sappiamo che sono tanti i codici che si trovano nella celebrazione liturgica: codici non verbali e verbali, codici spazio-temporali, codici personali e sociali, codici iconici e musicali (Aldo Natale Terrin, “Leitourgia/ Dimensione fenomenologica e aspetti semiotici”, Morcelliana, Brescia 1988 pagg. 135-143). Quando questi codici presenti nella liturgia vengono esaltati dal loro uso corretto e, ripeto, “celebrativo”, la liturgia diviene realmente solenne, anche intendendo questa parola nella seconda accezione a cui ci riferivamo all’inizio (sollus+omnis), essa è un “tutto intero”. Non bisogna intendere il termine “funzionale” dandogli esclusivamente l’accezione di “meramente pratico”. Non va bene qualunque “Santo” o qualunque musica per un salmo responsoriale. L’artista, compreso nel suo ruolo di “solennizzatore” delle sacre funzioni, è ancora più necessario che mai e sempre più urgente è la sua competenza specifica. Tutti possono comporre un “Signore pietà”, non tutti lo sanno fare osservando delle “costrizioni” che quella particolare celebrazione ti pone (organici, tropi, estensioni e via dicendo). Direi che con solennità vada intesa qui l’attuazione di codici adeguati. Qui ogni ministero liturgico ha il suo bel da fare: esiste un’arte per mettere i fiori, un’arte per proclamare la parola di Dio, un’arte per “sonorizzare” la celebrazione…e a tutti questi ministeri viene richiesta una competenza superiore alla specifica competenza di ogni capacità. Viene chiesta anche una specifica competenza liturgica.

E’ stato messo in pratica questo nei 40 anni successivi alla SC? Molto poco. La riforma liturgica non è stata capita fino in fondo un po’ da tutti. Si è pensato di esiliare i musicisti perché doveva cantare il popolo, quando non si è capito che senza i musicisti di professione anche il popolo ne usciva più impoverito. I musicisti stessi, almeno una buona parte, si sono chiusi nel loro castello (non “interiore”) per difendere i diritti della vera “musica sacra”, disprezzando quanto si cercava di costruire “nella Tradizione” (come spero di aver dimostrato). Forze opposte si sono fronteggiate, chi per un diritto chi per un altro, chi difendeva il latino chi il volgare, chi difendeva le chitarre chi l’organo, chi difendeva il canto beat chi il gregoriano…ma chi difendeva il popolo? Tutti, o forse nessuno. C’è stato un periodo in cui chi avesse avuto competenze e studi musicali veniva trattato come un nemico del canto del popolo, cose che si sentivano solo ai tempi della rivoluzione culturale di stampo Maoista. Tutti sappiamo che q
uesto atteggiamento ha tradito la SC e la riforma liturgica, l’ha tradita in quanto di più bello e innovativo aveva portato. Era già tutto nella SC:

Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le ‘Scholae cantorum’ in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30” (SC 6, 114).

Bastava legare i nn. 113 a 114 per evitarci questo quarantennio di brutture. Le “Scholae cantorum” non dovevano essere eliminate ma trasformate ed ispirate ai nuovi principi voluti dalla riforma liturgica. I maestri di cappella erano ancora più necessari che in passato e si sono quasi eliminati del tutto (ne resistono molto pochi)…Certo, cose belle sono state fatte e anche molte. Ma, ve lo assicuro per esperienza personale, siamo molto indietro rispetto ad altri paesi, specie anglosassoni e anche i segnali dell’oggi non incoraggiano entusiasmi. La partecipazione intesa nel modo odierno ha praticamente fatto un pessimo servizio allo stesso popolo che si voleva aiutare. E’ vero, abbiamo ottimi liturgisti, ottimi musicisti, ottimi organisti, ma abbiamo anche pessimi caratteri e questo, spesso (ma fortunatamente non sempre), ci impedisce una effettiva collaborazione che converga tutte le energie belle all’unico scopo che tutti desideriamo: quello di una liturgia più bella e dignitosa.

[La prima parte di questo articolo è stata pubblicata il 29 marzo]

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

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ZENIT Staff

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