Il Maestro di Giovanni Paolo II (parte I)

Intervista a Sir Gilbert Levine

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di Kathleen Naab

NEW YORK, martedì, 12 aprile 2011 (ZENIT.org).- Quando Gilbert Levine, nel 1987, accettò l’incarico di direttore artistico e direttore d’orchestra della Filarmonica di Cracovia – allora dominava il comunismo e si era nel pieno della Guerra Fredda – non sapeva che sarebbe diventato il “Maestro del Papa”.

Ma quando Giovanni Paolo II venne a sapere del giovane direttore ebreo americano in Polonia, erano già stati gettati i semi di un programma che si sarebbe tramutato in seguito in un’amicizia e in una collaborazione durata 17 anni nella riconciliazione tra cattolici ed ebrei.

Levine ha parlato a ZENIT della sua esperienza, raccolta nel volume “The Pope’s Maestro” (Jossey-Bass).

A suo avviso, la grande lezione del Papa polacco è che nonostante i 2.000 anni di incomprensioni e “terribili difficoltà” tra ebrei e cattolici, “se ci si applica, è possibile iniziare un processo di guarigione. Non avverrà dalla sera alla mattina, ma avverrà”.

Perché ha scritto questo libro? Come amico personale del Papa Giovanni Paolo II, lei è indubbiamente invidiato da milioni di persone, cattolici e no. Ma il libro va anche oltre le sue fortune personali.

Levine: Beh, non mi consideravo e non mi considero un suo amico personale. Il cardinale Dziwisz, in un’intervista, l’ha descritta come una profonda amicizia spirituale, e c’era certamente un elemento di amicizia che si è sviluppato nel corso degli anni, ma il Papa aveva amici personali – anche un ben noto amico ebreo, Jerzy Kluger, che conosceva dai tempi di Wadowice – quindi non mi definirei mai un suo amico personale, anche se avevamo un profondo rapporto artistico e spirituale, come ha detto il cardinale Dziwisz. La consideravo una cosa così generosa e straordinaria, che ho voluto raccontarne la storia e il Papa stesso mi ha incoraggiato a farlo, così come il cardinale Dziwisz.

Il rapporto si è sviluppato profondamente nell’arco di parecchi anni – 17 – e ha coperto un lungo cammino spirituale. Io ho condotto il primissimo concerto nel 1988 ed era tutta musica cattolica, musica che non avevo mai diretto in pubblico prima di allora, in un contesto molto cattolico, davanti a un pubblico totalmente cattolico; era un cammino che dovevo fare come artista. Poi, nel corso degli anni successivi, sono arrivato, siamo arrivati, a vedere nella musica – soprattutto lui – uno strumento capace di riunire la straordinaria storia – in buona parte fatta di sofferenze – che unisce cattolici ed ebrei.

Ho scritto il libro perché è un cammino che credo possa mostrare alla gente la nostra storia come cattolici ed ebrei, come figli di Abramo – compresi i musulmani – ma che può anche dire a un bambino o a un adolescente: “Tu puoi essere qualsiasi cosa. Puoi fare qualsiasi cosa. Qualunque cosa è possibile se l’anima umana è aperta agli altri”. Credo sia questo il messaggio al cuore del libro e che il Papa ha insegnato. Se lui ed io abbiamo potuto sviluppare questo tipo di fiducia e di amicizia, allora è possibile per chiunque.

Credo che questo è stato il messaggio, per esempio, della Giornata mondiale della gioventù [a Denver], dove, davanti a 500.000 ragazzi cattolici, ha mostrato il suo affetto per me ed ha scherzato con me. Per tutti quei ragazzi e tutti i vescovi che erano presenti e i sacerdoti con i loro greggi provenienti da tutta l’America e molte altre parti del mondo, e i molti esponenti della Curia, di fatto lui stava dicendo loro: “Vedete, io ci riesco. Sono unito a questo ebreo da un rapporto cordiale, aperto, intimo. Anche tu puoi fare lo stesso a casa tua, nella tua diocesi”. Credo che questa lezione sia molto forte. E il messaggio al centro del libro riprende quella lezione: il percorso che ho compiuto con questo uomo incredibile.

Quindi quasi uno sguardo sul futuro, un qualcosa che servirà alle future generazioni?

Levine: Assolutamente. Giovanni Paolo II è stato il vero maestro. E’ stato lui in assoluto il vero maestro. E io sapevo che insegnava attraverso di me e attraverso i concerti che facevamo. Insegnava al mondo ciò che era possibile fare. Duemila anni di incomprensioni, di terribili difficoltà, se ci si applica, è possibile iniziare un processo di guarigione. Non avverrà dalla sera alla mattina, ma avverrà.

E ciò in cui lui credeva – e credeva fortemente – era che la musica e la mia arte potessero essere un modo per affrontare queste profonde ferite dell’anima umana, nella costruzione di rapporti umani, e un tacito modo per ritrovarci vicini gli uni gli altri. Come ho detto, lui insegnava sempre a tutti, anche a me stesso, ogni giorno che ho avuto il privilegio di conoscerlo.

Lei racconta l’esperienza di preghiera vissuta insieme al Papa. Ce la può descrivere?

Levine: È stato sbalorditivo, straordinario. Il Primo ministro israeliano Rabin era stato assassinato. Dovevo andare in Vaticano per incontrarmi con diverse persone – un incontro per così dire di routine, anche nulla in Vaticano è routine – per parlare dei progetti su cui stavo lavorando. Mi sono incontrato con monsignor Dziwisz per dirgli che ero appena arrivato.

Non avevo visto il Santo Padre da quando mi era stata conferita l’onorificenza nel 1994 e lui [monsignor Dziwisz] mi ha chiesto di seguirlo alla Basilica di San Pietro. Ero molto perplesso perché non mi era mai stato chiesto prima. E per rendere breve una storia molto lunga e incredibile, sono stato introdotto nella cappella privata del Papa, dentro San Pietro, dove lui pregava in silenzio, seduto su una sedia di fronte a un crocifisso sul muro. Mi venne detto di mettermi di fronte a lui, e così potei osservare i suoi occhi chiusi, e non il muro. Era stato un suo desiderio. Voleva che pregassi con lui in silenzio. Fui subito profondamente rapito dal suo modo di pregare.

Si parla dell’incredibile quantità di tempo che lui trascorreva in preghiera da solo. Talvolta prostrato sul pavimento, in profonda preghiera. E questa volta era qualcosa di simile. Una preghiera in privato, incredibile, potente.

Ho ripensato alle preghiere della mia origine ebraica e poi la preghiera è diventata musica e ho immaginato l’Adagio della Nona Sinfondia di Bruckner, che per me è pura comunicazione tra Bruckner e il suo Dio. Poi il Papa si è mosso in avanti per inginocchiarsi sull’inginocchiatoio con l’aiuto di monsignor Dziwisz. Non mi ha guardato, non mi ha mai guardato, ma il collegamento tra noi non si è mai interrotto. Venni così coinvolto in maniera ancora più profonda nella sua preghiera, nella sua profonda … quiete. C’era una quiete incredibile in quella stanza. Due sacerdoti erano appoggiati al muro e sembrava che avessero smesso di respirare. Era assolutamente straordinario.

E poi, alla fine, il Papa si è alzato ed è venuto verso di me, ha steso le sue mani verso di me, ha preso le mie mani e mi ha guardato dritto negli occhi con tale potenza che ho dovuto chiudere i miei. Non potevo neanche sostenere il suo sguardo. E allora disse: “Senza di lui, potrà esserci pace?”. Pregava – ne deduco – per l’anima di Itzhak Rabin, e per la gente di Israele e della Palestina, per la tragedia di una Terra Santa senza pace. È stato assolutamente straordinario.

Ero così ignaro di ciò che sarebbe avvenuto che avevo portato per lui una videocassetta del concerto di commemorazione dell’Olocausto. Non avevo idea di ciò che avrei fatto. Mi sono sentito così stupido per questo, ma non aveva importanza perché ero stato rapito dalla sua preghiera. E poi si è alzato, interrompendo la preghiera, e d’improvviso l’atmosfera era cambiata. Mi ha detto: “Spero di non averle procurato troppo jet-lag, Maestro, la prego di perdonarmi”. Mi ha chiesto dei miei figli, cosa che faceva sempre, e di mia suocera. Dopo di che è
andato via. E’ stato assolutamente sbalorditivo.

Sono arrivato all’abitazione doveva aveva vissuto e lavorato Pierluigi da Palestrina, di fronte a San Pietro, e ho chiesto a un’amica: “Hai idea di dove stavo?”. Lei ha lavorato in Vaticano per 25 anni e mi ha detto che non ne conosceva l’esistenza.

Poi, alla fine della giornata ho chiamato monsignor Dziwisz e gli ho domandato: “Cosa è stato?”. Lui mi ha risposto: “Non sa, Maestro, che noi preghiamo lo stesso Dio?”. È stato incredibile, straordinario.

E lui aveva programmato tutto, il Papa. Un’esperienza mozzafiato… E lo sguardo degli altri due sacerdoti, nel vedere me, di tutte le persone presenti nella cappella privata, in quel Sancta Sanctorum dentro San Pietro… Erano assolutamente sbalorditi, assolutamente sbalorditi.

Mi colpisce – soprattutto se si pensa anche al modo in cui il cardinale Dziwisz l’ha riassunto – quasi come se fosse il simbolo di tutto ciò che il Santo Padre voleva realizzare insieme a lei.

Levine: Assolutamente sì.

Prima la musica e poi la preghiera… allo stesso Dio…

Levine: Esattamente. Ed era questo intreccio tra musica e preghiera, musica e spirito. Anche oltre la preghiera. Era musica e spirito. Ho sempre avuto l’impressione di poter condividere con Giovanni Paolo II questa incredibile quiete, questa mistica unione, che era la cosa più profonda in lui. Perché non era più preghiera cattolica e non era più preghiera ebraica. Era la nostra comune devozione ad un Dio. Assolutamente meraviglioso.

Dopo tutti questi anni, cosa pensa ora dei suoi audaci commenti dopo il suo primo incontro con Giovanni Paolo II nel 1988: “Io credo, Santità, che lei potrà ottenere il riavvicinamento dei nostri due popoli [ebrei e cristiani] … Io credo che lei sia stato mandato da Dio proprio per questo”. Nel suo libro lei osserva che è stato un po’ azzardato dire al Vicario di Cristo “ciò che gli era stato preordinato da Dio nel suo Pontificato”.

Levine: Non so chi abbia detto quelle cose [ride]. Non so da dove siano venute quelle parole, ma erano necessarie. Non immaginavo di dirgli nulla. Mi era stato espressamente detto di non preparare nulla da dire e che gli avrei dovuto solo fare il baciamano, lui mi avrebbe benedetto, e sarei andato via, con una bella foto per i nipoti. Invece, sono stato introdotto nella sua biblioteca privata e lui chiaramente aveva in mente qualcosa, chiaramente voleva conoscermi, voleva scoprire chi fossi.

Sapevo di avere un’occasione che non si sarebbe più ripetuta. Non sarei più stato con quest’uomo. Dovevo dire ciò che avevo nell’anima. Dovevo dirlo e ci credevo profondamente, perché sapevo da dove veniva, da Wadovice, dalla Polonia, dal Paese che aveva visto l’assassinio di milioni di ebrei, perché era nella perfetta posizione per comprenderlo. L’aveva visto. Aveva sofferto sotto l’occupazione nazista. Molti sacerdoti polacchi erano stati uccisi, molti erano suoi amici, radunati e uccisi. Lui conosceva in prima persona l’Olocausto, avendolo visto dall’altro lato della rete di filo spinato. Sapevo che se c’era qualcuno che poteva farlo, era lui.

Ora, che io avessi qualcosa a che fare con questo, era per me inconcepibile allora. Non avevo in mente nulla di simile. Sapevo solo di doverlo dire, come genero di sopravvissuti dell’Olocausto, che avevano perso 40 membri della famiglia in quel periodo orrendo. Semplicemente sentivo che spettava a me dirlo. La cosa incredibile è che lui non ha detto una parola. È stata l’ultima cosa detta in quell’udienza veramente privata, in quel tête-à-tête. Lui ha solo guardato in giù ed è rimasto incredibilmente pensieroso per lungo tempo. Ero sicuro di aver detto la cosa più ridicola, la cosa più assurda e che lui non stava aspettando altro che il suo staff lo liberasse da questo strano intruso. Ne ero convinto, perché non aveva proferito parola. Il suo sguardo era quasi costernato, perché era assorto profondamente nei suoi pensieri.

Credo sia stato importante per me l’averlo detto. Non so da dove mi sia uscito. Certamente non era un mio pensiero. Mi era venuto in mente d’improvviso.

Ho scritto questo libro, ma non sono uno scrittore, non so scrivere opere. Non so mettermi seduto e dire, bene ho tre ore questo pomeriggio per scrivere un capitolo. Ho dovuto attendere che dal fondo della mia mente ogni cosa trovasse la sua giusta collocazione. Mia moglie lo sa bene: passavano anche tre settimane e il mio editore cominciava a impazzire. Viaggiavo per il mondo, tornavo, comparivo con la mia vestaglia, nel mio studiolo, dicendo: “Vorrei una tazza di caffè”. E lei capiva: “ah-ah!”. Mi prendevo il caffè e magari scrivevo un capitolo intero, perché tutto era affiorato fuori dal mio inconscio. Credo che, in questo senso, quella frase stesse già lì sin dal mio viaggio a Cracovia. […]

Credo di aver toccato una corda nel profondo dell’anima del Papa, che forse c’era qualcosa che si poteva fare. Questo strano americano è arrivato in Polonia e forse ha un ruolo da svolgere. Giovanni Paolo II deve aver pensato così, perché invece di buttarmi fuori per non vedermi più, è stato l’inizio di questa amicizia spirituale che si è sviluppata nei successivi 17 anni. Guardando indietro è stato, come diciamo noi in yiddish, bashert, il destino. Ma chi l’avrebbe detto? Chi l’avrebbe mai immaginato?

Lui però lo sapeva. Lui lo sapeva perché la sua visione era così incredibilmente chiara. C’è una foto, che forse ha già visto, di lui che sta in cima a una montagna e fissa le colline della Giudea, scattata durante il suo viaggio in Israele nel 2000. È così che io vedo Giovanni Paolo II: come un visionario, una persona che guarda oltre le valli e le difficoltà, verso la vetta successiva. Come possono unirsi Dio e l’uomo in un modo così forte, in modi diversi, differenti, ma così fortemente? Io credo che lui abbia visto in quella folle frase l’inizio di ciò che io immaginavo potesse essere la fine del nostro rapporto.

[La seconda parte di questa intervista sul “miracolo” di Giovanni Paolo II sulla suocera di Levine sarà pubblicata il 13 aprile]

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ZENIT Staff

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