di Paul de Maeyer
ROMA, domenica, 10 aprile 2011 (ZENIT.org).- La “maternità surrogata” – nota anche come “utero in affitto” – solleva tutta una serie di interrogativi etici. Già il fatto che per la “surrogazione” – nient’altro che la logica conseguenza della “fecondazione in vitro e trasferimento di embrioni” (FIVET) – si ricorra di norma alla donazione di gameti (di seme o di ovociti, o di entrambi) rende la tecnica eticamente discutibile. Ma non finisce qui. Un’altra caratteristica che contraddistingue la pratica è che sfocia spesso in aspre battaglie legali, che costringono i giudici di turno a sciogliere “nodi gordiani” o a pronunciare sentenze quasi “salomoniche”.
Mercoledì 6 aprile, la Corte di Cassazione di Parigi ha reso nota la sua molto attesa sentenza sul caso avanzato dai coniugi Sylvie e Dominique Mennesson, di Maisons-Alfort, nel dipartimento di Val-de-Marne, nella periferia sud-orientale della capitale francese. La vicenda inizia nel 2000, quando diventano genitori di due gemelline – Isa e Léa -, nate il 25 ottobre in California da una “madre portatrice” (dietro un compenso di 12.000 dollari) e concepite con il seme di Dominique Mennesson e con ovociti donati da un’amica della famiglia.
Anche se i certificati di nascita californiani riconoscono Sylvie e Dominique Mennesson come i genitori delle due bambine, al loro ritorno in patria le autorità locali rifiutano di iscrivere Isa e Léa nei registri dello stato civile nazionale, privando le bambine della cittadinanza francese. Per una semplice ragione: la gestazione detta “per conto altrui” (o GPA, in acronimo francese) è vietata nel Paese dal 1991, ben prima della nascita delle due gemelline.
La battaglia giuridica dei Mennesson – molto mediatizzata – per ottenere l’iscrizione delle due bambine è giunta sino ai giudici supremi d’Oltralpe, che mercoledì scorso hanno confermato il “no” già pronunciato dai tribunali di grado inferiore. Secondo gli “ermellini” francesi, i bambini nati da madri portatrici all’estero non hanno infatti il diritto di essere iscritti nei registri dello stato civile francese.
Nella sentenza, la Corte di Cassazione giudica “contraria all’ordine pubblico internazionale francese la decisione straniera che comporta delle disposizioni che offendono dei principi essenziali del diritto francese” (Agence France-Presse, 6 aprile). Nonostante la decisione negativa, la sentenza rispetta secondo i giudici i diritti primordiali delle bambine: non sono private dalla filiazione materna e paterna riconosciuta dal diritto straniero, e non viene impedito loro di vivere con i “richiedenti”, cioè i Mennesson.
La speranza della coppia era grande. L’8 marzo scorso, il “Parquet général” (la Procura Generale) aveva emesso infatti un parere positivo, chiedendo alla più alta corte di giustizia della Francia di accogliere la richiesta della coppia. Come motivazione, il pubblico ministero aveva invocato il principio di “interesse superiore del bambino” e si era basato sull’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sul “diritto al rispetto della vita privata e familiare”. La procura ha usato persino espressioni molto forti, qualificando le bambine come “irregolari” (“sans papiers” in francese, letteralmente “senza documenti”) e “clandestine”, come ha ricordato il legale della coppia, Nathalie Boudjerada, il 5 aprile sul sito di Libération.
Il nuovo “no” è senz’altro un duro colpo per i coniugi Mennesson, che si sono dichiarati “costernati” e intendono presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo. “Tutto questo è molto ipocrita”, ha detto Sylvie Mennesson. “Si fa come se non esistessero” le bambine, ha affermato commentando la sentenza (Libération, 7 aprile). Secondo la saggista e femminista Caroline Fourest, la decisione della Cassazione è una “battuta d’arresto”, che rimanda queste famiglie “all’era della giungla” (Le Monde, 9 aprile).
Per la filosofa Sylviane Agacinski, membro del collettivo No Body for Sale, le cose sono un po’ diverse. In un articolo pubblicato il 4 aprile su Le Monde.fr, la Agacinski ha definito la battaglia dei Mennesson un tentativo di “aggirare” la legge francese. Come ricorda inoltre l’autrice, le due bambine non sono né clandestine né irregolari: hanno infatti uno stato civile e un passaporto statunitensi.
Secondo la filosofa, la domanda fondamentale è se la legge sia giusta o no. La legge francese, ha spiegato, riconosce alle persone il diritto al rispetto del loro corpo e garantisce questo diritto impedendo di farne un oggetto di scambio. Ed è per questo che la “maternità sostitutiva” è vietata. Applicare il “molto vago” art. 8 della Convenzione europea dei Diritti umani a questo caso, inoltre, sarebbe “puramente arbitrario”. Con tutte le simpatie per Isa e Léa, conclude la Agacinski, la battaglia condotta apparentemente nel nome dell’interesse superiore del bambino è “un cavallo di Troia” usato dai sostenitori della gestazione per conto altrui per assediare la legge.
E tutto indica che la legge non cambierà presto. Nel dibattito sul progetto di revisione della legge sulla bioetica del 2004, il Senato francese ha rifiutato infatti giovedì 7 aprile – cioè appena 24 ore dopo la pubblicazione della sentenza della Cassazione – di legalizzare la surrogazione. Con 201 voti contro 80, i senatori hanno respinto 3 emendamenti che miravano ad autorizzare la pratica.
“Dobbiamo resistere a questa tendenza che consiste nel dire che giacché una cosa esiste bisogna anche legalizzarla”, ha sottolineato la senatrice socialista Catherine Tasca (AFP, 7 aprile). Per Marie-Thérèse Hermange, senatrice dell’UMP, “legalizzare la gestazione per conto altrui è legalizzare l’abbandono infantile”. Con una maggioranza meno netta (173 voti contro 134), i senatori hanno bocciato anche alcuni emendamenti per autorizzare l’iscrizione all’anagrafe di bambini nati da madri portatrici.
C’è però un “ma”. Lo scorso 10 febbraio, il Tribunale di Grande Istanza di Nantes (dipartimento della Loira Atlantica, Bretagna) ha ordinato di iscrivere nello stato civile una bambina nata nel 2001 sempre da una madre surrogata californiana e di darle la nazionalità francese. Si tratta – scrive il 4 aprile il sito Gènéthique – di un caso particolare: il padre, che vive in una relazione omosessuale, non era francese alla nascita della bambina. L’uomo, che ha ottenuto la nazionalità francese nel 2010, ho voluto conferire la sua nuova cittadinanza anche alla bimba.
La grande differenza tra il caso di Nantes e quello dei Mennesson è dunque che nel primo il richiedente era straniero al momento della nascita del bambino. Il fatto che nel caso dei Mennesson la Corte di Cassazione abbia respinto l’iscrizione perché si tratta di due coniugi francesi costituisce allora una discriminazione? Come ribadisce sul sito Chretiente.info (7 aprile) Jeanne Smits, che accoglie positivamente la decisione della Suprema Corte e osserva che Isa e Léa possono considerarsi figlie di quattro genitori – della coppia Mennesson, della madre portatrice e della donatrice degli ovociti -, non c’è da dubitare che la futura argomentazione dei sostenitori della surrogazione sarà incentrata sull’aspetto discriminatorio della sentenza del 6 aprile.