L’Ospedale Policlinico oggi nel territorio milanese, ma non solo

ROMA, sabato, 2 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato il 25 marzo dal Cardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, presso il Policlinico del capoluogo lombardo.

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“L’ospedale è il luogo dell’ospitalità nei confronti di coloro che sperimentano dolorosamente la fragilità e l’ostilità della vita”.[1] Con queste parole penso non solo di dare una definizione o descrizione dell’ospedale, ma anche e più ancora di indicare il fine principale, ossia l’“intenzione” e lo “spirito” che sempre devono animare, orientare, assicurare unità feconda alle istituzioni sanitarie: anche a quelle più complesse, con le altrettanto complesse e differenziate attività che vi vengono svolte. Ricorrendo al linguaggio della pratica medica potrei dire che alla luce di questa intenzione e di questo spirito è possibile, anzitutto, formulare una corretta “diagnosi” circa lo stato di salute delle istituzioni sanitarie esistenti, e poi inventare e mettere in opera “terapie” adeguate agli inconvenienti che la diagnosi dovesse rilevare. Sono questi i tre aspetti su cui vorrei fermare l’attenzione.

1. Per quanto riguarda l’“intenzione”

Il Piano Strategico 2011 della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore, Policlinico di Milano propone indicazioni e precisazioni di particolare rilievo. Vuole essere lo strumento di gestione della programmazione delle prestazioni erogate che si presenta quanto mai complessa, sia per la necessità di integrare la linea dell’assistenza con quella della ricerca e della didattica, sia per la presenza di diverse guide: il Sistema Sanitario Regionale, il Ministero della Salute, il Ministero della Università e della Ricerca. Ho letto con piacere nella relazione illustrativa del Piano Strategico che la parola d’ordine della Legge Regionale 31/97 è “mettere al centro la persona”, la stessa che ho scelto per le pagine introduttive del testo “Il Policlinico. Milano e il suo Ospedale” e che voi avete ritenuto utile riportare: “…mettere al centro la persona significa riconoscere che l’altro è sempre una persona concreta, non virtuale o immaginata… significa tirarla fuori dall’anonimato, ridarle identità… significa accettare di fare un tratto di strada con l’altro…”.

Parole sacrosante, queste; parole vere, liberanti ed esigenti! E proprio esse devono guidare sia la ristrutturazione dei padiglioni (costruire per gli uomini, pensando a mura che devono accogliere persone prima che strumentazioni e macchine), sia l’organizzazione aziendale, oltre che gli interventi per una maggiore efficienza economica. In questa linea il documento che avete elaborato deve diventare un sentiero-guida per la crescita e lo sviluppo della Fondazione IRCCS CA’ GRANDA, che permetta quotidianamente di coniugare assistenza, ricerca e didattica in modo correlato e sinergico, evitando così rischi di conflittualità.

Nella fiducia che le intenzioni programmatiche dichiarate nel Piano Strategico vengano perseguite con tutta l’intelligenza e la dedizione che esigono, è proprio a partire da queste che mi sembra possibile formulare alcuni spunti “diagnostici”, accompagnati poi da qualche suggerimento “terapeutico”. In concreto mi soffermerei su tre aspetti:
1) la qualità delle cure, mettendo realmente al centro la persona;
2) il considerarsi come parte di un sistema, quello della sanità della Città e della Regione;
3) il mantenere viva la vocazione alla ricerca traslazionale e a quella nell’ambito dell’organizzazione sanitaria.
2. Per quanto riguarda la “diagnosi”
A nessuno sfugge che la sanità sta cambiando per molteplici ragioni. Basta ricordare anche solo qualcuno dei numerosi e ambivalenti sintomi che segnalano tale cambiamento.

2.1. La tecnologia, messa a disposizione degli operatori sanitari, rende fattibili interventi terapeutici in passato inimmaginabili. Questo crea nei malati e nei loro familiari aspettative di benessere sempre maggiori. Nello stesso tempo, però, gli apparati tecnologici e il sistema burocratico necessario alla loro organizzazione, inserendosi tra la persona del medico e quella del malato rendono la loro relazione più complessa e meno immediata; aumentano la distanza non solo fisica, ma soprattutto spirituale, fra il paziente e chi si occupa della sua salute: tale distanza costituisce uno spazio che rende possibili pericolose distorsioni rispetto all’intenzione originaria.

2.2. Anche per questo motivo il rapporto medico-paziente si presenta decisamente in una veste nuova. Tramontato definitivamente il “paternalismo”, per cui era il medico a decidere in gelosa solitudine il “bene del malato”, si va affermando sempre più il diritto del paziente a partecipare attivamente alle decisioni che lo riguardano. Il malato non è più colui che si sottomette in modo ignaro e fideistico alle prescrizioni del medico; oggi egli sa che cosa chiedere, dimostrando intelligenza e volontà. E tuttavia il malato rimane in una condizione obiettivamente asimmetrica rispetto al personale medico: se non altro perché solitamente non dispone della competenza tecnica che invece è oggi necessaria per assumere decisioni razionali e quindi responsabili proprio in vista del suo stesso bene.

2.3. È vero che il malato non accetta più di essere un numero anonimo in un’anonima struttura sanitaria, ma chiede con insistenza che le prestazioni sanitarie gli vengano erogate in luoghi idonei e con modalità rispettose della sua dignità di persona. Per questo si va parlando, con sempre maggiore insistenza, di umanizzazione nel campo della sanità. D’altra parte sappiamo bene che tale umanizzazione non dipende solo dalla disponibilità soggettiva delle persone e dagli abiti virtuosi che esse hanno il dovere morale di coltivare: richiede anche risorse finanziarie spesso ingenti. Pone quindi urgentemente il problema dei criteri secondo cui provvedere con equità alla ripartizione degli oneri economici, alla distribuzione e all’amministrazione delle risorse disponibili.

Un veloce richiamo storico sul passato e sul presente ci aiuta a comprendere come i progressi della medicina e della chirurgia abbiano modificato profondamente l’aspetto tradizionale dell’ospedale permettendo di migliorare le qualità delle cure con investimenti economici di grande entità. La gestione complessiva dell’attività sanitaria in relazione al modificarsi delle patologie e al reperimento e alla distribuzione delle risorse necessarie per applicarvi i nuovi ritrovati terapeutici, non è però progredita nella stessa misura e con la stessa intensità, generando sensibili squilibri.

La riforma sanitaria introdotta con la legge 833 del 23 dicembre 1978 è stata rivista e cambiata, e poi cambiata e riformata; e ancora oggi l’evoluzione normativa e organizzativa non sembra del tutto stabilizzata e metabolizzata. Dalle USL alle ASL, dal decentramento all’accentramento, poi al decentramento “controllato”; dai sistemi economici che prevedevano il pagamento delle prestazioni “a piè di lista”, a quelli che fanno riferimento ai cosiddetti DRG (medicina intesa come prodotto, ospedale inteso come azienda; il malato-cliente, il medico-fornitore). Questo processo segnala certamente una ricerca di equilibri tuttora in atto. E’ spia di un disagio non sormontato, di un malessere irrisolto, oppure è indice di un cammino in faticosa salita verso la vera ricerca del bene? E’ davvero possibile ipotizzare un ospedale “nuovo” dove il medico si senta co-protagonista insieme al malato della salute come percorso verso un riconquistato stato di benessere, consapevolmente diverso, dopo la prova della malattia, del trauma?

3. Qualche suggerimento con finalità “terapeutica”

3.1. Ritengo che, innanzitutto, occorra una rettifica radicale del modo di pensare e, conseguentemente, di agire. Si tratta in primis di una questione culturale, più precisamente di comprendere il concetto di solidarietà, in profondo, superando la semplice prospettiva dell’assistenza.
La malasanità non sempre è da imputarsi al co
mportamento medico che può essere accusato di negligenza, imprudenza o imperizia. Molte volte essa è direttamente collegata anche con l’incuria o l’inerzia di chi amministra: sui disservizi influiscono – e quanto! – anche una gestione non oculata, gli sprechi di risorse, le incongruenze organizzative, la scarsa o nulla manutenzione degli immobili, e ogni genere di trascuratezza che contribuisce al disprezzo pratico della dignità del malato, ma anche di chi lo assiste. Dunque la solidarietà comprende per intero il flusso delle azioni volte al benessere di chi soffre e di chi si prende cura della sofferenza.

Ma ancor prima la solidarietà deve avere la capacità di rendere trasparente il significato della sofferenza umana, del dolore e della malattia. Si tratta di un punto cruciale per attribuire all’azione del curare e del guarire il loro valore autentico. Si capisce che in questo ambito si sfiora il mistero della condizione umana; ma si apre anche il tentativo di dare una risposta a interrogativi di tale portata: e questo rientra nel dovere di chi presta la sua opera terapeutica. L’uomo malato è ben altro che un “oggetto rotto” da aggiustare! Il medico, dunque, dovrà dotarsi di un bagaglio culturale peculiare: oltre al sapere scientifico dovrà possedere anche una sapienza umanistica. Solo così potrà rispondere all’appello che viene dal soggetto-oggetto delle sue attenzioni e cure: l’uomo-persona malato.

Possiamo allora affermare che l’ospedale è a misura d’uomo quando il medico rende visibile e credibile la motivazione profonda che guida i suoi gesti, secondo una scienza animata dal desiderio di aiuto, in autentico spirito di servizio, senza trascurare che il primo essenziale soccorso umano è quello che aiuta il malato a vivere con dignità la propria malattia e la propria cura. È necessario e urgente andare al di là del semplice consenso informato, che spesso non è reale date le fragili condizioni psicologiche del malato, per battersi al fianco del paziente, per assisterlo, per evitare la sua solitudine e lenire il suo dolore, insistere cioè sull’alleanza medico-paziente anche quando non ci sono speranze terapeutiche.

3.2. Desidero ora rivolgere un appello a tutti e a ciascuno di voi, amministratori, docenti, ricercatori, medici, infermieri, operatori sanitari, assistenti sociali, cappellani, volontari: non dimentichiamo mai, pur nella doverosa considerazione di tutti gli aspetti economici, finanziari, tecnici, amministrativi, che l’ospedale deve diventare e mantenersi sempre “luogo di speranza”. Non dimentichiamo mai che l’uomo ammalato sperimenta su di sé e in sé la fragilità della sua natura, la debolezza delle sue forze, la sofferenza, la solitudine, l’interrompersi delle normali relazioni quotidiane. Da qui nasce l’invocazione di aiuto e di conforto rivolto a voi tutti, specialmente ai medici, ai parenti e agli amici. La risposta a questo suo grido alimenta nel malato la speranza di poter ritornare a vivere e a gustare la bellezza della vita e della salute, e nel medico la speranza di poter vincere la malattia con intelligenza e competenza o di poter aiutare a vivere in modo umano anche l’esperienza della malattia e della morte, che dell’umano sono parte.

Solo partendo da questa visione l’ospedale può essere definito “umano”. Un ospedale, cioè, nel quale si sa riconoscere, rispettare, difendere ed esaltare la dignità personale dell’uomo malato. Sono sicuro di non essere minimamente frainteso: non sto facendo semplici affermazioni teoriche – che da tutti sono ripetute e spesso gridate con forza -, ma sto enunciando delle istanze estremamente serie, sacrosante, insopprimibili, destinate inevitabilmente a sfociare in decisioni e scelte concrete di vita. Ci occorre la saggezza e il coraggio di scendere nell’intimo della coscienza, dove – come scrive il Concilio Vaticano II – “l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, fuggi quest’altro” (Gaudium et spes, n. 16). E’ il richiamo – semplice e formidabile – al dovere di guardarci da un’impostazione solo aziendale della sanità e della stessa realtà ospedaliera. E in un ambito più specificamente sociale è il richiamo ad affrontare i temi della sanità secondo l’ottica di un Stato sociale che sappia coniugare insieme assistenza e produttività, efficienza e qualità, giustizia e solidarietà [2].

Dobbiamo tutti riconoscere che oggi si fa ancora più necessaria e indispensabile la riaffermazione della centralità della persona umana, perché il nostro contesto storico sembra spesso spingere a considerare la salute come prodotto e il malato come un cliente. E, di conseguenza, la sanità come un ambito del mercato, regolato da analoghe leggi. La dignità della persona umana va sempre rispettata, salvata e promossa specie quando la persona si trova nello stato di sofferenza, di malattia, di debolezza. Questa azione si fa più urgente e necessaria proprio oggi, di fronte ad un cambiamento culturale e sociale che può esaltare l’uomo nel suo valore più profondo, oppure lo può minacciare [3]. Dovrebbe colpirci profondamente quanto ha scritto Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza: “La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana” (Spe salvi, n. 38).

3.3. Vorrei fermare l’attenzione su di un altro punto, che ritengo particolarmente decisivo per il raggiungimento di una maggiore umanizzazione dell’ospedale: il collegamento fra l’ospedale e il territorio. Questo aspetto va messo in evidenza in una prospettiva che sottolinea la prevalenza del momento preventivo rispetto al momento curativo e in un contesto organizzativo che fa dell’ospedale uno dei centri della rete assistenziale caratterizzato non più dalla degenza, ma dall’elevato livello delle prestazioni specialistiche. E’ certo che questo modello, per segnare un reale avanzamento e non una limitazione della globale presa in carico che la malattia richiede, ha bisogno di una rete diffusa a supporto della cura della fase acuta della malattia, affidata all’ospedale. E’ altrettanto evidente che tale modello è oggi di fatto al suo avvio e non è ancora né adeguatamente elaborato né tanto meno compiuto. Si tratta tuttavia di un modello che va perseguito e costruito pazientemente e sapientemente perché, al di là delle logiche sottese di risparmio economico, esso stesso può contribuire all’umanizzazione delle cure, a garantire sicurezza e serenità al malato, a reperire nuove risorse per la ricerca e la cura di malattie gravi. Ma la condizione è che esso venga perfezionato e attuato in tutte le sue parti con il conseguimento degli scopi prefissati.[4]

La rete assistenziale domiciliare non deve essere orientata meramente alle cure palliative per i pazienti terminali o ad un’attenzione per i non autosufficienti, ma in una visione globale deve tendere a garantire la continuità assistenziale. Anche il ruolo della famiglia va riconsiderato e rivalorizzato. La famiglia non può essere considerata sempre e comunque come una “risorsa” sulla quale la collettività possa automaticamente contare. Soprattutto di fronte a pazienti deboli e fragili facenti parte di famiglie altrettanto deboli e fragili occorre mettere in atto non solo incentivi di carattere economico, ma una politica veramente umana che, volendo sostenere la famiglia, offra servizi socio-educativi in grado di dare un competente ascolto, un valido accompagnamento e sostegno, interventi integrativi
e/o sostitutivi. E’ qui che l’aspetto sociale si accompagna a quello sanitario.

Particolarmente valido ed utile è in questo contesto il ruolo svolto dalle associazioni di volontariato che hanno come scopo primario l’assistenza domiciliare. In questo modo l’ospedale è aperto e si apre costantemente al territorio: il paziente, i suoi familiari, il suo medico curante divengono i protagonisti insieme ai medici dell’ospedale per coordinare tutto ciò che, previsto nel piano di cura, si concretizza poi in risposte positive per il paziente stesso.

3.4. La riflessione su queste tematiche sarebbe incompleta se non ci si ponesse anche un ultimo e altrettanto importante interrogativo: dove gli operatori sanitari imparano ad acquisire una mentalità siffatta? In una nuova “Scuola di Medicina” dove “l’ospedale, i laboratori di ricerca, le aule universitarie devono essere parte di una unica entità strettamente integrata in cui si formano gli studenti, si creano percorsi per la figura del physician scientist, medico in grado non solo di curare i pazienti nel modo migliore ma di contribuire anche allo sviluppo della ricerca scientifica. L’unità di luogo crea l’ambiente e l’atmosfera di un vero e proprio campus permanente con tutti i vantaggi di un clima di scambio, di confronto, di emulazione e di collaborazione. Più oltre, specializzandi e specialisti devono essere formati utilizzando tutte le strutture sanitarie limitrofe, del territorio e della Regione, inserite in una rete formativa voluta e condivisa sulla base di un progetto comune, dalle autorità universitarie e sanitarie della Regione e dello Stato, senza distinzione di etichette per il bene dei pazienti, e per lo sviluppo della medicina e quindi della società. Per le carriere e le funzioni dei medici che operano nelle scuole di medicina vanno superati steccati e difese di appartenenze e va creata una nuova figura, una nuova funzione, un nuovo percorso per la docenza. Nelle scuole di medicina sperimentali devono essere immaginate originali forme di mobilità, di interscambio che consentano il passaggio dalla funzione docente a quella assistenziale e di ricercatore, e viceversa, sulla base di programmi formativi chiari, di progetti di ricerca definiti, di forme assistenziali verificate e validate. La centralità del malato, il rispetto della persona, il recupero del rapporto umano è implicito in un progetto pedagogico di questo tipo che ha nella trasparenza dei percorsi e nella linearità dei comportamenti dei docenti il primo insegnamento”.[5]

Conclusione

A conclusione di queste riflessioni, vorrei ribadire che, a monte degli auspicati cambiamenti strutturali e comportamentali, è richiesto un cambio di rotta da parte della società in cui viviamo, e quindi di noi tutti. La nostra società ci si presenta con il volto della complessità, della differenziazione o addirittura della frammentazione. L’individuo incontra oggi notevoli ostacoli nella ricerca di un senso convincente alla propria vita e capace di darle unità ordinando i diversi compiti, le molteplici attività, i tempi incalzanti, i ritmi frenetici, le logiche contrastanti in cui è quotidianamente coinvolto. È però anche vero che tali differenti momenti – solitamente senza che se ne abbia una consapevolezza riflessa – sono di fatto tra loro anche intrecciati in un complesso rapporto di interdipendenza.

In particolare, tra l’istituzione dell’ospedale e le altre istituzioni sociali e l’intera società stessa si dà un reciproco e notevole influsso, proprio perché è soprattutto nell’ospedale, oggi, che si gioca in gran parte la partita della nascita e della morte, e comunque della difesa della salute, della promozione della qualità della vita. La cultura complessiva della vita condivisa nell’ambiente sociale si riflette perciò anche nella gestione dell’ospedale; nello stesso tempo però la cultura e il costume praticati nell’ospedale influenzano l’ethos collettivo ed anche la mentalità e la moralità personale. Non è possibile ipotizzare un ospedale a misura d’uomo se contemporaneamente non si opera per una famiglia, una scuola, un lavoro, un’economia, un’industria, una politica a misura d’uomo. L’ospedale è di fatto uno specchio della società e in esso convivono tutte le contraddizioni di cui è segnata la società stessa. È però anche vero che nella nostra epoca la società per molti aspetti finisce per essere lo specchio dell’ospedale. L’ospedale è infatti uno dei luoghi privilegiati in cui si determina la qualità e si decide il destino della nostra civiltà.
L’opera da realizzare richiede uomini forti, intelligenti e liberi.

E, allora, come non richiamare le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate all’inizio del suo pontificato, che appaiono di una straordinaria attualità [6]? “ (…) Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa! Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna. (…)”.

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1) Cfr. Dionigi Tettamanzi, La sofferenza umana tra fragilità, solitudine e speranza. Lectio magistralis “Caritas in veritate”: voce profetica per una medicina dell’accoglienza. Università degli Studi di Bari “A. Moro”, Palazzo Ateneo, 28 aprile 2010.
2) Cfr. Carlo Maria Martini, L’etica dello Stato sociale. Prima Conferenza Nazionale della Sanità. Roma, 24 novembre 1999. Università La Sapienza, Milano Centro Ambrosiano, 1999, p. 43.
3) Cfr. Dionigi Tettamanzi, La centralità dell’uomo, in “Orizzonte medico” 53 (1998/6) 13-15:13.
4) Cfr. Carlo Maria Martini, Messaggio per la Festa del Perdono 2001, Ospedale Maggiore Milano, 26 marzo 2001.
5) Cfr. Giuseppe Scotti, Così si formano i medici del futuro. Sì a una nuova «Scuola di medicina», Corriere della Sera, 10 gennaio 2010, p. 7.
6) Estratto dall’omelia pronunciata da Giovanni Paolo II domenica 22 ottobre 1978 per l’inizio del suo Pontificato.

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ZENIT Staff

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