I religiosi in Oriente, maestri nel dialogo con i musulmani

Intervista all’abate Semaan Abou Abdo, Superiore generale dei mariamiti libanesi

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di Robert Cheaib

ROMA, martedì, 26 ottobre 2010, (ZENIT.org).- Anche se l’Instrumentum Laboris del Sinodo dei Vescovi non ha dedicato sufficiente spazio alla vita religiosa, gli interventi dei Padri sinodali hanno messo in risalto il ruolo pionieristico dei religiosi e degli eremiti nella diffusione del cristianesimo nel passato e nella sua permanenza per il futuro.

In quest’intervista a ZENIT, il Superiore generale dell’Ordine Maronita della Beata Vergine Maria, l’abate Semaan Abou Abdo, descrive il ruolo poliedrico e cruciale che la vita religiosa e monastica può giocare nel complicato e delicato tessuto sociale libanese e mediorientale.

Nel suo intervento sinodale ha affrontato questioni spinose come la vendita dei terreni dei cristiani e il problema sempre più urgente dell’emigrazione. E quali possibili soluzioni ai problemi più urgenti del Medio Oriente, come la pace, la democrazia e il diritto di cittadinanza ha indicato spazi d’incontro tra i cristiani e i musulmani come la famiglia, la Vergine Maria, i valori umani e nazionali e il lavoro educativo. Ci può presentare il lavoro concreto che i religiosi mariamiti svolgono sul campo per realizzare le soluzioni che lei delinea?

Abate Semaan Abou Abdo: Attraverso il lavoro del nostro Ordine, noi tocchiamo con mano l’importanza dell’opera educativa per far sì che i cristiani rimangano nel Medio Oriente e per rafforzare le basi della convivenza sociale. In quest’ambito, un’importanza primaria è attribuita al lavoro educativo, proprio perché crediamo che educando le persone e creando opportunità di inserimento sociale, noi le aiutiamo a rimanere nelle loro terre. Per quanto riguarda la convivenza sociale tra cristiani e musulmani, le nostre scuole sono aperte ai fedeli di tutte le religioni. Anzi, ci sono certe zone dove la maggior parte dei nostri studenti appartiene ad altri religioni. Un esempio è rappresentato dalle nostre scuole nella zona di Chouf in Libano, dove circa il 65 % degli studenti è formato da drusi. Nella nostra università, Université notre Dame de Louaizé, abbiamo studenti che vengono da Paesi arabi ed europei.

Inoltre, abbiamo una scuola nella Valle del Bekaa che è per me “il simbolo della convivenza sociale”. In essa i drusi, i musulmani e i cristiani coesistono e collaborano insieme con esemplare naturalezza. E’ un paradigma di convivenza. In ambiti educativi del genere, gli studenti crescono con la coscienza che l’altro non è un alieno ma vicino, simile, e che le religioni sono sì diverse ma non per questo conflittuali. Pertanto, grazie al nostro lavoro educativo noi offriamo ai nostri giovani un futuro plurale degno di loro. Il Sinodo fa appello a vivere insieme in pace, come può accadere questo? Proprio tramite la vita insieme, sin dall’infanzia. Perciò, l’educazione per noi non si riduce a impartire concetti ma aiuta a concepire i rapporti come relazioni di dialogo.

Lei ha anche parlato della Vergine Maria come fattore d’unità. Ma non crede piuttosto che proprio in lei vada rintracciata la prima frattura dottrinale tra cristiani e musulmani. I primi vedono in lei la Theotokos, la madre di Cristo, figlio di Dio e Salvatore, mentre i secondi la venerano come la madre di Issa, uno dei grandi profeti?

Abate Semaan Abou Abdo: Quando parlo di Maria come donna dell’unità e come fattore dell’unità tra cristiani e musulmani non mi riferisco a questioni dottrinali. Sia i Vangeli, sia il Corano parlano di Maria, e in questo senso lei è elemento d’unità, anzi è la donna dell’unità per eccellenza. In lei incontriamo la donna della riconciliazione, è lei che ci dona Gesù, il principe della pace. Questo suo ruolo è stato riconosciuto a titolo ufficiale dal Governo libanese che ha dichiarato, con entusiasmo popolare, il 25 marzo, festa dell’annunciazione a Maria, come festa nazionale per cristiani e musulmani. Credo che questo sia un sentimento che si è manifestato durante il Sinodo appena conclusosi, e in questo senso comprendo la richiesta avanzata di consacrare il Medio Oriente a Maria.

Durante il suo intervento al Sinodo, il consigliere del Mufti della Repubblica Libanese, il signor Muhammad As-Sammak, ha affermato di poter vivere l’islam con qualsiasi altro musulmano di qualsiasi Stato ed etnia, ma in quanto arabo orientale di non poter vivere la sua essenza di arabo senza il cristiano arabo orientale. Nella stessa linea, il gesuita Samir Khalil ha affermato in una recente intervista che il cristiano orientale si sente più vicino al musulmano che al cristiano occidentale grazie al comune senso religioso. Lei è il Superiore di un Ordine che ha conventi in Oriente e Occidente, qual è l’esperienza della sua comunità al riguardo?

Abate Semaan Abou Abdo: Noi ci ritroviamo più facilmente con i musulmani su valori religiosi, umani e nazionali che esistono di rado in Occidente. Tra questi valori troviamo la preghiera, l’elemosina, il concetto di pellegrinaggio, il digiuno e il senso religioso. Personalmente, quando vedo i musulmani pregare mi pongo la questione sulla qualità della mia preghiera e sulla mia perseveranza. Così anche sull’argomento della famiglia: il valore e il ruolo della famiglia è un punto d’incontro tra cristiani e musulmani. I musulmani valorizzano la sacralità della vita come noi. Nel Corano è scritto che il denaro e i figli sono l’ornamento della vita. Questo ci mostra che il valore della vita è importante per loro. E perché questa attenzione alla famiglia? Perché essa è la prima cellula della società, come ha intuito Giovanni Paolo II. Nella famiglia cresce l’uomo come cittadino, come essere umano e come essere religioso. In seno alla famiglia l’uomo conosce Dio e cresce nel dialogo. In famiglia impara ad accettare l’altro. Per questo motivo insisto molto sul ruolo della famiglia.

L’Instrumentum Laboris parla molto brevemente della vita religiosa al numero 33, e le proposte fatte non costituiscono niente di nuovo sotto il sole, come se questo numero fosse stato scritto solo per assolvere al dovere di parlare della vita religiosa senza aver colto nel segno il suo ruolo vitale. Questa mancanza è stata notata da monsignor Ramzi Karmo, Arcivescovo di Teheran dei Caldei cattolici, che ha lamentato la poca attenzione dedicata dal documento alla vita religiosa, monastica ed eremitica come elementi fondamentali nel rinnovamento ecclesiale. Come interpreta questa grave lacuna nell’Instrumentum Laboris?

Abate Semaan Abou Abdo: Parto prima di tutta dal ruolo della vita consacrata nella Chiesa, dove essa costituisce un elemento importante ed essenziale del vissuto e della missione della Chiesa. Essa è per così dire il laboratorio della vita spirituale. La vita religiosa è il cuore della Chiesa; è una chiamata di Dio alla quale l’uomo risponde in libertà per vivere una consacrazione totale al servizio della parola di Dio, in una istituzione riconosciuta. Giustamente, lei nota che l’Instrumentum Laboris dedica poco spazio ad essa, ma vorrei direle piuttosto ciò che mi ha meravigliato durante il Sinodo, ossia l’insistenza dei Vescovi della diaspora sull’importanza della vita religiosa e il loro appello affinché i Vescovi incoraggino la vita religiosa e la vita eremitica. Perciò l’oblio quasi totale nel documento di lavoro è stato compensato dall’insistenza e dalla valutazione positiva offerta dai Padri sinodali. L’Oriente è sorgente della vita monastica, e perciò l’appello al ritorno alle sorgenti dell’Oriente è più che giusto.

Paragonando le Chiese orientali con le altre Chiese, notiamo un certo ripiegamento sui propri popoli e sulle proprie terre; pochi orientali vivono una vita missionaria all’estero, malgrado lo stato florido delle vocazioni religiose. Se pensiamo che la giovane chiesa coreana vanta circa 200 missionari, viene naturale la domanda su quest’abitu
dine poco missionaria degli orientali e sui possibili passi per incentivare la missione.

Abate Semaan Abou Abdo: È vero che la vita religiosa in Libano ha avuto periodi di chiusura e ripiegamento su di sé. Ma questo fenomeno rifletteva una situazione d’urgenza. La situazione di guerra che l’Oriente ha vissuto ha spinto gli ordini religiosi locali a concentrarsi sui bisogni del posto. Ma questa chiusura non viene dall’ispirazione fondatrice degli Ordini. I nostri fondatori concepivano la missione come parte integrante della vita religiosa. Basti penare che poco dopo la fondazione del nostro Ordine [nel 1695, ndr], i nostri monaci hanno aperto una casa a Roma nel 1707. E nel 1745, dopo 50 anni dalla fondazione, erano già presenti in Egitto, contribuendo al rinascimento della lingua araba.

La loro partenza in missione ha seguito un ritmo preciso: i cristiani sono fuggiti dal Libano o dall’Oriente a seguito delle persecuzioni, i religiosi sono quindi partiti dopo di loro per accompagnare spiritualmente i fedeli nella diaspora e così sono nate le nostre missioni in Uruguay, Argentina, Stati Uniti, Australia…In questo momento c’è una crescente apertura missionaria. Negli ultimi anni, non solo gli ordini religiosi, ma anche alcune diocesi – come la diocesi di Jbeil (Byblos) e quella di Sarba – hanno iniziato a mandare i loro sacerdoti in missione in Africa. Perciò possiamo dire che c’è una rinnovata apertura missionaria facilitata dal numero di vocazioni in Libano.

Confessiamo però che si può fare ancora molto di più. Per questo, dall’inizio del mio servizio come Superiore generale ho deciso di concentrare l’attenzione nei primi tre anni su due obiettivi: le vocazioni e le missioni. In questo modo ci concentriamo sull’interno e allo stesso tempo ci apriamo all’esterno, alle missioni. Una comunità religiosa chiusa in sé non dura a lungo, e soprattutto non vive lo spirito del Vangelo. La mancanza alla quale ha accennato nell’Instrumentum Laboris è stata compensata non solo negli interventi sinodali ma anche alla fine del Sinodo, nelle proposizioni, e nel Messaggio al Popolo di Dio.

Nell’Esortazione apostolica post-ainodale “Vita Consecrata”, Giovanni Paolo II quanlifica la vita religiosa come “testimonianza profetica”. Come possono i religiosi e i monaci orientali vivere questa testimonianza nell’attuale situazione economica, sociale e politica?

Abate Semaan Abou Abdo: La testimonianza profetica dei religiosi è quella di vivere il Vangelo sine glossa. Devono essere come il lievito nell’impasto, e devono accettare di essere una minoranza. Quando il Figlio di Dio si è incarnato, ha vissuto 30 anni nel nascondimento. E quando ha iniziato la sua missione pubblica, la situazione politica, religiosa e sociale non era per nulla migliore di adesso; ciò nonostante ha portato a termine la sua missione, e così hanno fatto anche i suoi apostoli. La nostra esistenza stessa deve essere una testimonianza profetica, vivendo concretamente, seguendo la parola di Cristo, e radicandoci nel terreno. Saremo profetici se vivremo la conversione del cuore per vivere la parola del Vangelo, perché notiamo come lo spirito consumistico sta invadendo la società, e la nostra testimonianza è di andare controcorrente, per testimoniare fino anche al martirio. Nel nostro contesto attuale, la testimonianza profetica dei religiosi è anche quella di combattere con la tolleranza e l’apertura il fenomeno diffuso dell’intolleranza e del fondamentalismo. Bisogna riconoscere che tante volte, i religiosi, invece di dare buona testimonianza costituiscono motivo di scandalo. Per questo chiedo a me stesso e agli altri di tornare alle sorgenti del Vangelo. Ciononostante bisogna stare attenti a non allargare il giudizio negativo generato dalla cattiva testimonianza di alcuni a tutti i religiosi, tra i quali un gran numero vive una vita santa.

In uno dei pochi interventi sinodali che hanno parlato della vita religiosa, monsignor Edgar Madi, Vescovo dell’eparchia di nostra Signora del Libano in Sao Paolo, ha affermato che “l’esistenza di religiosi e monaci custodisce i cristiani in patria e rinnova l’espansione dei cristiani orientali nel mondo, oltre a far riscoprire loro le radici, che sono radici spirituali orientali”, e ha suggerito la costituzione di “un comitato per approfondire questo tema e per far sì che la Valle di Kannubin in Libano non rappresenti soltanto una fase della storia dell’ascetismo, ma sia anche parte del presente”. La vita eremitica – e non solo religiosa – preserva un suo ruolo vitale nella vita della Chiesa d’Oriente? E il vostro ordine che ha un passato eremitico è ancora aperto a questo carisma?

Abate Semaan Abou Abdo: L’appello di monsignor Madi è stato veramente profetico e commovente, e dobbiamo soffermarci bene sul suo appello perché è una chiamata che riguarda tutta la Chiesa. La vita eremitica-contemplativa è un nervo centrale nel corpo della Chiesa. E il Libano è famoso per la storia eremitica. Ripristinare questa vita oggi è una grande sfida e dobbiamo prepararci ad esso spiritualmente ed ecclesialmente.

Attualmente in Libano ci sono alcuni eremiti. L’Ordine libanese maronita ha due eremiti. Per quanto riguarda il nostro ordine, non molti anni fa è morto in profumo di santità l’ultimo eremita, padre Antonios Tarabay. Stiamo ultimando la fase patriarcale della sua causa di canonizzazione, e presto presenteremo la causa a Roma. Sono d’accordo con il Vescovo di fare del Libano la terra della vita eremitica nel presente e non solo del passato. La valle di Qadisha [la valle dei santi, ndr] è traboccante di storie di santità e di eroismo cristiano, e preghiamo il Signore di riportare il Libano a queste glorie.

Cosa farà l’Ordine mariamita nel presente prossimo per applicare le decisioni del Sinodo?

Abate Semaan Abou Abdo: La prima cosa sulla quale insisterò è il cambiamento di mentalità. Perché senza la conversione del cuore e senza l’approfondimento spirituale non possiamo realizzare niente. Dobbiamo accorgerci che l’Oriente ci riguarda, che il nostro Paese ci riguarda. Dobbiamo capire che le nostre istituzioni sono lievito per l’Oriente, e che tramite esse dobbiamo lavorare ad aiutare la gente a rimanere nel Medio Oriente. Dobbiamo lavorare per convincere i cristiani laici ad impegnarsi nella vita sociale e politica dei loro Paesi e a non ripiegarsi su se stessi perché essi non sono ospiti ma cofondatori delle loro nazioni.

Lo stiamo già facendo, ma aumenteremo la cessione dei terreni ai nostri fedeli per creare opportunità di lavoro. E soprattutto dedicheremo particolare attenzione alle famiglie. La famiglia è una piantagione di vocazioni, sia alla vita consacrata, sia alla vita laicale. Abbiamo paura per la famiglia che rischia di disintegrarsi a causa degli attacchi permanenti della mentalità consumistica e delle visioni errate sulla libertà e sulla sessualità. Per questo lavoreremo con le famiglie per far capire ai genitori il loro ruolo educativo. Tante famiglie, trovando una scuola retta da religiosi, credono di poter delegare loro tutta l’educazione. Questo è un errore grandissimo. I primi educatori rimangono i genitori. Non può essere la scuola la responsabile dell’educazione. La scuola continua ciò che è stato abbozzato a casa. I primi educatori dei bimbi sono i genitori. Per questo dedicheremo attenzione particolare alla formazione delle coppie e delle famiglie. È un lavoro al quale dedico già tanta attenzione, e personalmente preparo al matrimonio una media di 500 coppie all’anno.

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ZENIT Staff

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