di Mariaelena Finessi
ROMA, giovedì, 21 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Divide gli animi di chi si dice a favore della causa palestinese e di chi, invece, invoca il diritto di Israele non solo ad esistere ma, questo è il punto, a vivere in un clima di sicurezza. È il documento che tanto sta facendo discutere in questi giorni, redatto dai cristiani e laici di Palestina e il cui contenuto è di fatto «un grido di dolore che nasce dall’occupazione israeliana imposta ai palestinesi – spiegano alcuni suoi firmatari -, levato in cielo perché il mondo possa ascoltare».
In Italia, Kairós Palestina – così denominato ricalcando un documento simile stilato per il Sudafrica nel 1985 contro il regime dell’apartheid – è diventato un libro, stampato da due case editrici francescane, “Edizioni Messaggero di Padova” ed “Edizioni Terra Santa”, con una prefazione del Patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal e un commento di Abuna Raed Abushalia, già segretario del Patriarca, che invoca la fine di Israele e la costituzione di uno stato unico per ebrei e arabi.
La polemica nasce dalla particolarità delle firme in calce al testo. In particolare, vi figura quella del Custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa il quale, rispondendo ai giornalisti a margine del Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente in corso in questi giorni a Roma, ha voluto ribadire la sua estraneità in questa storia. D’obbligo allora le precisazioni degli editori, arrivate nella serata del 19 ottobre, all’interno di un incontro organizzato da Pax Christi Italia e Fondazione Missio.
«Non è un documento ufficiale della Chiesa – chiarisce padre Ugo Sartorio, direttore editoriale del Messaggero di Sant’Antonio -. Nasce da un percorso di confronto tra laici e cristiani. La Custodia di Terra Santa non è stata coinvolta nella sua stesura, ne ha “preso atto”, come si dice, solo dopo la pubblicazione». Perché è stato scritto Kairós Palestina? E, soprattutto, perché arriva solo adesso, cioè dopo un anno dalla sua uscita, all’attenzione dei media?
Il documento, che racchiude l’invito a resistere all’occupazione israeliana con tutti i mezzi non violenti a disposizione, boicottaggio economico compreso, è stato così intitolato «proprio perché insiste sul “momento” di grazia, il “kairós” appunto, il “tempo favorevole” in cui è necessario che i palestinesi per primi si fermino a riflettere sulle proprie condizioni di vita affinché prendano coscienza che qualcosa deve essere fatto per uscire dall’impasse», spiega Sua Beatitudine Michel Sabbah, già Patriarca latino di Gerusalemme, a Roma per presentare Kairós – di cui lui è uno degli estensori – alla stampa italiana approfittando delle luci accese sull’assemblea sinodale.
Per i toni utilizzati Israele in realtà vi ha visto un attacco. Erroneamente, sostengono i firmatari dell’appello: «L’occupazione è un peccato contro Dio e l’umanità», si giustificano. Questo è quanto. E tra le problematiche che rendono impossibile un dialogo ricordano «il muro di separazione israeliano eretto in territorio palestinese, il blocco di Gaza, le colonie israeliane che sorgono su terreni palestinesi, le umiliazioni subite ai posti di blocco militari, le restrizioni religiose e gli accessi controllati ai luoghi santi, la piaga dei rifugiati che attendono il loro diritto al ritorno, i prigionieri detenuti in Israele e la paralisi della comunità internazionale di fronte a questa tragedia».
Tuttavia ciò che viene proposto per affrontare un male simile, come ricorda don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia, è «la resistenza non violenta». Se i cristiani restano in Terra Santa, gli fa eco il Patriarca emerito Sabbah, «è solo perché credono in Dio, nella sua volontà misteriosa che farà si che il bene prevarrà».
«Restare – prosegue – vuol dire però anche agire e allora l’accusa che Kairós sia un testo antisemita ed anti-israeliano è da rigettare». Che poi il documento «sia di parte, questo è normale essendo il nostro punto di vista, cioè di noi che subiamo l’occupazione, di noi cristiani che non siamo spettatori ma parte di una stessa società».
«Resistere è un atto d’amore – conclude Sabbah -. Nessun potere può privare l’uomo della libertà e della vita ecco perché abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di eliminare il male, ovviamente seguendo la logica dell’amore e non della guerra».