Solo lo Stato civico potrà salvare i cristiani d'Oriente (I)

Intervista a Samir Khalil, gesuita ed esperto in islam

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di Robert Cheaib

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 19 ottobre 2010 (ZENIT.org).- I cristiani in Medio Oriente non sono vittime di una persecuzione sistematica, ma la loro vita e i loro diritti subiscono una discriminazione simile a una lenta eutanasia che sta spegnendo a poco a poco la loro presenza millenaria in Medio Oriente.

Il Sinodo dei Vescovi ha una responsabilità cruciale nel proporre un rimedio a questo fenomeno che l’Arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako, non ha tardato a definire «l’emorragia dei cristiani mediorientali».

In quest’intervista a ZENIT, padre Samir Khalil, esperto d’Islam e di storia del Medio Oriente, offre un quadro storico-religioso della situazione attuale nella regione, analizza le sfide più urgenti e propone alcune possibili soluzioni concrete.

Pur non essendo l’unico argomento trattato dai padri sinodali, si nota però che un grande rilievo è stato dedicato all’aspetto geopolitico della presenza cristiana in Medio Oriente e in particolare al loro rapporto con l’islam. È forse questo l’aspetto più importante e veramente decisivo per la loro esistenza e permanenza in Medio Oriente?

Samir Khalil: Non v’è dubbio che essendo una minoranza che non supera il 10% della popolazione del Medio Oriente – mentre la stragrande maggioranza è di religione musulmana – la nostra esistenza dipende dal beneplacito di questa maggioranza, soprattutto perché l’islam si concepisce come Stato e religione. E siccome da più di 30 anni ormai la maggioranza degli Stati mediorientali ha adottato un approccio islamista alla realtà statale, dove la religione decide tutti i particolari della vita quotidiana, sociale e politica, va da sé che in queste condizioni la nostra situazione dipenda dal buon volere dei musulmani e dal sistema islamico. Non c’è da stupirsi, allora, se la questione ha occupato un grande rilievo come lei nota giustamente.

Lei è di origine egiziana, ma vive in Libano, ed essendo esperto dell’islam si trova spesso a contatto diretto con i musulmani. Come descriverebbe il suo rapporto con loro?

Samir Khalil: Faccio subito una distinzione tra i musulmani presi singolarmente e i sistemi islamici, semplicemente perché con i musulmani presi singolarmente è possibile instaurare un bellissimo dialogo e un confronto interculturale e religioso.

Mi permetta di raccontare un aneddoto a conferma di quanto dico: ieri sera mi ha contattato su skype un musulmano sunnita del nord del Libano, incontrato per caso su un aereo un mese fa. Il nostro dialogo si è concentrato sulla Trinità e sulla preghiera. Durante la conversazione mi ha detto: «dottore, vorrei presentarle mia moglie». In Oriente, questo gesto vuol dire che sei ormai parte della famiglia. Quindi, preso singolarmente il musulmano – paradossalmente – è molto più vicino a noi cristiani orientali di un cittadino europeo. C’è un senso religioso che ci accomuna e ci unisce. Ma se dobbiamo parlare dell’islamismo, il discorso cambia radicalmente perché si tratta di un progetto politico a sfondo religioso. Come cristiani orientali, vorremmo essere trattati semplicemente come cittadini con una Costituzione che trascende tutte le religioni. Ma nella maggior parte dei casi nei nostri Paesi la Costituzione è basata essenzialmente – se non totalmente – sulla legge islamica. E questo è il nostro problema. A parte pochi casi come il Libano, gli Stati anche costituzionalmente laici, come sarebbe il caso della Tunisia, della Siria o della Turchia, sono culturalmente Paesi islamici e privilegiano i cittadini di religione musulmana.

Il revival islamico è un fenomeno molto complesso che ha diverse origini: le correnti del ressourcement come il Wahhabismo; la lettura antagonista dell’Occidente presentata a metà del XX secolo da personaggi come Sayyed Kotb, fondatore dei fratelli musulmani; i diversi pregiudizi culturali che fanno coincidere erroneamente Occidente e cristianesimo; le ultime guerre americane considerate come crociate contro l’islam; la grave parzialità occidentale nel conflitto israelo-palestinese. Ma qual è secondo lei il perno di quest’esponenziale sviluppo dell’islamismo politico e del fondamentalismo islamico?

Samir Khalil: Da una parte c’è un’ondata islamista che nasce agli inizi degli anni Settanta. A partire dal 1973 è accaduto un fenomeno economico in seguito alla guerra tra Israele e Paesi arabi, che ha visto il prezzo del greggio quadruplicarsi in pochi mesi. Così i Paesi petroliferi si sono trovati improvvisamente con una montagna di petrodollari. L’Arabia Saudia, non sapendo cosa fare di questa immensa fortuna ne ha impiegato un’ampia parte nella costruzione di moschee e scuole islamiche. L’Arabia Saudita ha finanziato i Fratelli Musulmani in Egitto e il loro progetto era chiaro: islamizzare la società egiziana perché non era abbastanza musulmana. In seguito, ha fatto la stessa operazione in tutti i Paesi del Medio Oriente. Così agli inizi degli anni Ottanta, i Fratelli Musulmani sono diventati così numerosi da essere considerati come un pericolo in Siria e il presidente siriano Hafiz al-Asad li ha soggiogati con la forza.

L’Indonesia, un paio di decenni fa, era considerata il paradiso della libertà religiosa in un Paese musulmano, tanti sacerdoti erano ex convertiti dall’islam. Adesso questo è un fenomeno impossibile. Lo stesso in Nigeria: nell’ultimo decennio il numero delle province che applicano la legge islamica è salito da 4 a 12. L’Europa, con circa il 5% di musulmani si sente già invasa e minacciata. Così il canceliere tedesco Angela Merkel ha lanciato l’allarme pochi giorni fa annunciando il fallimento del modello d’integrazione, perché sono proprio loro a non volersi integrare. E perché non si integrano? Perché hanno un progetto religioso, mentre gli Stati dove vivono hanno progetti nazionali areligiosi.

Di fronte a questa situazione alquanto complessa e critica, cosa ha fatto il Sinodo dei Vescovi e cosa intende fare?

Samir Khalil: Noi cristiani d’Oriente viviamo in mezzo a questo fenomeno in fieri, dove l’islam guadagna piede giorno dopo giorno, a tal punto che nella Lega Araba il primo argomento è sempre questo: come affrontare l’islamismo. E il Sinodo sta dedicando particolare attenzione al rapporto con l’islam. Le sedute sinodali si interrogano sul perché la gente lasci la propria terra, la culla del cristianesimo. Nel mondo arabo non c’è persecuzione contro i cristiani, ma c’è discriminazione. I cristiani non sono trattati nello stesso modo dei musulmani. I musulmani sono i cittadini normali destinatari delle leggi. Gli altri, costituzionalmente, sono cittadini, ma concretamente le leggi – in quanto fatte a partire dal sistema musulmano – lasciano i cristiani in una condizione svantaggiata. Inoltre, la libertà di coscienza è inesistente, esiste solo la tolleranza che consiste nel sopportare che il cristiano rimanga in terra islamica ma con tanti limiti. Non è possibile, però, lasciare l’islam per un’altra religione. Tutte queste situazioni sono state negli ultimi giorni al centro dell’attenzione dei padri sinodali.

La diagnosi offerta tocca diverse cause di sofferenza per i cristiani d’Oriente, ma allora la domanda che si pone è: c’è una via d’uscita, oppure le proposte e i propositi sono solo utopia e rimarranno solo come prognosi riservata?

Samir Khalil: C’è un’unica via d’uscita, quella di puntare a certi concetti condivisi, come quello di «cittadinanza» o della «appartenenza araba», entrambi riconosciuti da gran parte dei musulmani. I movimenti che promossero questi valori agli inizi del XX secolo ebbero tanto successo perché portavano con sé un soffio di novità che invitava a uscire dalla visione tribale; ma ultimamente questa
visione è stata accantonata e sostituita dal concetto dell’Umma [La nazione] islamica. Durante la presidenza di Nasser, fino alla metà degli anni ’70, il concetto era la Umma al-Arabiyya [la nazione araba], ma dalla metà degli anni ’70 in poi è prevalso il concetto dell’Umma al-Islamiyya [la nazione islamica], che non lascia spazio ai non musulmani. La soluzione è di cercare di proporre, musulmani e cristiani, un concetto moderno di Stato, non solo a livello politico, ma anche a livello culturale.

La proposta è concreta, ma alquanto irrealizzabile nello scenario culturale dell’Oriente. Come si può fare affinché il fattibile diventi fattivo?

Samir Khalil: Proprio qui subentra la proposta del Sinodo per il Medio Oriente: non si tratta di fare un progetto cristiano, e tantomeno un progetto dei cristiani o per i cristiani, perché così riflettiamo come se fossimo una minoranza che cerca di proteggersi. Noi non cerchiamo di proteggerci, ma quello che diciamo riflette la parola anche di tanti musulmani che riconoscono come noi che la nazione araba sta male perché soffre di una defaillance nell’esercizio della democrazia, nella distribuzione delle ricchezze e nello stabilimento della giustizia sociale e di uno Stato di diritto, nella riforma del sistema sanitario. L’islam è molto sensibile a queste dimensioni. La libertà di coscienza e di espressione è auspicata da tanti, e questo non perché la gente vuole allontanarsi dall’islam, ma perché vuole vivere l’islam in un modo più personale. Nel mondo islamico c’è un senso di modernità e di libertà che non osa manifestarsi. Un cristiano può scrivere criticando il suo patriarca o vescovo, mentre è difficile per un musulmano farlo. Non perché qualcuno in particolare glielo vieti, ma perché la cultura stessa glielo impedisce. Gli imam sono gli ulema [i dotti] e il loro sapere non si discute. E ribadisco che con le suddette proposte non si tratta di rendere i musulmani meno musulmani o i cristiani meno cristiani ma di dire che la fede è una questione personale anche se ha la sua dimensione sociale, e ognuno deve vivere la propria fede come gli viene inspirata da Dio.

[Mercoledì 20 ottobre, la seconda parte dell’intervista]

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ZENIT Staff

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